Una nuova vita vi attende nelle colonie extra-mondo. La possibilità di ricominciare in un El Dorado di opportunità e di nuove avventure…”

La storia non fa salti, è quello che ci insegnano a scuola. Sulla falsariga delle idee di Leibniz (“natura non facit saltus”) e di un certo riduzionismo implicito in ogni tentativo scolastico di divulgazione delle teorie naturalistiche di Darwin, siamo abituati a considerare il progresso (storico, scientifico, culturale, etc.) come un processo di sviluppo graduale, una lenta evoluzione verso forme e strutture sempre più complesse, funzionali, efficaci. Ma in natura come nella storia, come pure nei più diversi campi dell’attività umana, un ruolo di primo piano è sempre giocato da quei rivolgimenti improvvisi che con il loro manifestarsi incidono nel lento procedere degli eventi, si tratti delle mutazioni che portano all’emergenza dei nuovi caratteri forniti in eredità alla specie, oppure delle rivoluzioni che determinano la comparsa di nuove strutture sociali e politiche.

Anche in ambito culturale è possibile individuare degli improvvisi scatti in avanti: opere e autori capaci di imprimere la loro svolta all’orizzonte culturale della loro epoca, anticipando (ma forse sarebbe più opportuno parlare di influenza, anziché di premonizione) i traguardi futuri. Il Novecento è stato il secolo della massificazione: arte, cultura, informazione, sono diventate progressivamente di dominio pubblico, o per lo meno l’accesso ai meccanismi di fruizione ha spazzato via le barriere che nei secoli passati avevano tenuto fuori dal circuito culturale la stragrande maggioranza della popolazione. Si è trattato di un evento cruciale nell’evoluzione delle dinamiche sociali, e in termini di civiltà paragonabile solo all’altra grande rivoluzione culturale che ha segnato il culmine del XX secolo e l’alba del Nuovo Millennio: la facilità di accesso ai meccanismi di produzione e distribuzione dei beni culturali. Grazie ai nuovi media e in particolar modo alle risorse fornite da Internet, la linea di separazione tra i diversi ruoli, tra chi genera e chi fruisce dei prodotti dell’arte e della cultura in senso lato, è andata scomparendo. La distinzione si è fatta sempre più labile e arbitraria. E così abbiamo assistito allo spettacolo della popolarizzazione (o, se vogliamo, della “democratizzazione”) dei processi mitopoietici, un tempo appannaggio esclusivo delle elite, rivendicate con arroganza dalle accademie.

I primi passi in questa direzione sono forse merito delle avanguardie, che per una buona fetta del secolo scorso hanno manovrato il timone dei gusti e delle mode, passandosi l’un l’altra la staffetta nella corsa di avvicinamento al futuro. Dal futurismo, alla fantascienza, non a caso indicata da James G. Ballard, negli anni ’60, come l’ultimo territorio letterario aperto alla sperimentazione, dominio che a lungo era rimasto prerogativa delle avanguardie. Non desta quindi stupore se l’ultima ondata di rinnovamento che ha scosso l’elettroencefalogramma del Novecento è stato il cyberpunk: movimento sorto in seno alla fantascienza e presto affrancato dalle “catene” del genere grazie alla sua attitudine postmoderna a inglobare elementi, linguaggi e icone di matrice eterogenea, in un ideale cortocircuito con l’immaginario popolare.

Come movimento, il cyberpunk esplose ufficialmente nel 1984, grazie alla risonanza senza

Philip K. Dick
Philip K. Dick
precedenti che accompagnò l’uscita di quello che ne diventò a tutti gli effetti il manifesto letterario: stiamo parlando ovviamente di Neuromancer, il romanzo di William Gibson che impose nella letteratura la carica di immagini visionarie che sarebbero entrate nell’esperienza comune di lì a una quindicina d’anni (il cyberspazio, il personal computer, i virus informatici, l’interfaccia) oppure sarebbero finite accolte nella mitologia e nell’iconografia della nostra epoca (i cowboy della consolle, le intelligenze artificiali). Gibson porta alle estreme conseguenze metafore come il cyborg e lo spazio incorporeo della realtà virtuale già presenti in illustri predecessori (Frederik Pohl, Alfred Bester, James G. Ballard, Philip K. Dick, Samuel R. Delany), sviluppando intorno ad esse una attenta meditazione critica sui processi della propagazione culturale. È un’operazione che deve molto all’esperienza del postmoderno, e di William Burroughs e Thomas Pynchon in particolare. Ma i riferimenti culturali del capolavoro di Gibson spaziano dall’arte (Duchamp) e dall’architettura d’avanguardia all’urbanistica (lo Sprawl), alla musica (i Velvet Underground e Lou Reed, il dub giamaicano), fino ad arrivare alle sottoculture giovanili (droghe di sintesi, hacker, feticismo tecnologico) e metropolitane (gli snuff movie). Neuromante è allo stesso tempo il ritratto di un’epoca e la proiezione attendibile dei tempi che sarebbero seguiti, e rispecchia alla perfezione la definizione di cyberpunk che sarebbe stata fornita in seguito da Bruce Sterling (come “integrazione del mondo high-tech e della cultura pop, specie nel suo aspetto underground”).