Scommetto che neanche ricordate più il suo nome: Tahrya Shrinawar. Vi dice niente? La sua scoperta ha talmente cambiato l’uomo che l’umanità ha cassato dalla memoria la coscienza di un passato completamente diverso, distruggendone lentamente anche le tracce. Non so se disperare o gioirne: sulla Terra siamo rimasti in pochissimi a rammemorare, ma tempo una generazione, scomparirà anche questo residuo, tenue velo mnemonico. Saranno mille e mille volte che io torno a narrarvi la mia inascoltata lezione…

Appena mezzo secolo fa tutto era molto differente. Immaginate - se almeno di questo siete ancora capaci - un mondo in cui c’è la “felicità” ma c’è anche un’alta percentuale di “sofferenza”. Chiamiamo (semplifichiamo) “felicità” la vostra ordinaria condizione attuale, “sofferenza” uno stato diverso, in cui molti eventi sono sbagliati, non vanno come dovrebbero andare e ciò “fa star male”, provoca cioè disturbi all’organismo e alla mente (Dio, come spiegare i colori a un cieco?), fa “ammalare”, talora addirittura morire. Riuscite a intendermi? In sostanza coesistevano due stati psichici…

Da migliaia di anni religioni e filosofie tentavano di interpretare o giustificare la compresenza della gioia e del dolore, capire perché senza l’una non potesse esserci l’altro e viceversa. Ora, accadde un giorno che a uno scienziato-filosofo…

A Tahrya Shrinawar, appunto. Fu a lui che venne di pensare: il “dolore” esiste perché esiste il “Male”; la “gioia” c’è perché c’è il “Bene”. Ma allora, come eliminare il Male, per lasciare solo Bene al genere umano? Per anni Tahrya rifletté giorno e notte senza mai smettere, finché gli giunse una prima Illuminazione: ed egli decretò che l’umanità non sarebbe mai riuscita a eliminare il Male.

Trascorsero altri anni, tanti che non sappiamo dire quanti. E dopo aver meditato instancabile altri giorni dopo giorni, altre notti dopo notti, Tahrya ebbe la sua seconda Illuminazione: non si poteva eliminare il Male, però si poteva aggirare il maligno ostacolo, frutto del Male: eliminare il “dolore”.

Lo scienziato-filosofo quindi, dopo aver pensato, si dedicò alla pratica dei suoi laboratori sperimentali, circondato da devoti scienziati-discepoli. Fu così che dopo anni e anni riuscì a sintetizzare… un farmaco? Una droga, un toccasana, un elisir, un miracolo? Nessuno saprebbe definirlo. Creò una molecola superiore che, assunta dall’organismo, attutiva e poi eliminava i recettori del dolore “fisico”, come anche tagliava quelli del dolore della mente e del pensiero. Tahrya chiamò il suo medicinale o elisir o ambrosia con il nome ”lutelix”, che da parole di due antiche lingue significa: “dolore felice”.

Da allora il lutelix cambiò l’umanità. Niente più stati depressivi, via sensi di colpa, gli shock per tsunami che uccidono centomila persone, le sofferenze di milioni di cancri che divorano bambini innocenti, di miliardi di figli genitori parenti amici sconosciuti - ma sangue del nostro sangue - che in ogni istante periscono per malattie o incidenti o anche sana vecchiaia. Addio alla massima  condanna della vita…

Ma per una condanna peggiore. Sebbene inconsapevole! Voi tutti, a miliardi, che ora avete obliato o voluto obliare, voi che vi adagiate in un limbo ovattato di sensazioni placide, immutabili, attutite, voi tutti ignorate di vivere una mezza-vita, di essere morti viventi. E da ignari quali siete, se vi si chiedesse di tornare indietro, voi rifiutereste.

Nessuna scoperta, buona o cattiva che sia, ha mai smosso l’orgoglio, le sedimentate consuetudini dell’umanità, stimolandola a un passo indietro.