Claudia Mitchell, americana, circa trent’anni, ne aveva passati ben quattro nel corpo dei Marines, ma il destino non l’aspettava in una zona di guerra, bensì in un giro in moto una volta tornata a casa. Nell’incidente Claudia perse il braccio e la spalla sinistra e, a parte il non indifferente disagio psicologico, anche la capacità di compiere i gesti più semplici.

Oggi è la prima donna e la quarta persona in assoluto ad avere impiantato un braccio bionico in grado di muoversi tramite il pensiero. Alla ragazza basta posizionare la mano meccanica vicino all’oggetto e pensare di volerlo prendere e la mano si chiude. Al momento ovviamente non ha il senso del tatto, ma un nuovo prototipo è già in via di sperimentazione.

La sperimentazione è nata grazie alla DARPA, Defense Advanced Research Projects Agency (agenzia per la ricerca dei progetti avanzati della difesa), creata per trovare un aiuto ai numerosi marines che hanno subito amputazioni a causa di ferite di guerra. Il progetto è stato sperimentato all’istituto di riabilitazione di Chicago e coinvolge non solo personale militare ma anche i civili, come la prima persona ad avere ricevuto l’impianto, un elettricista che aveva perso entrambe le braccia a causa di una forte scossa elettrica.

L’operazione dietro un esperimento del genere è stata spiegata da Todd A. Kuiken, uno degli ingegneri biomedici che hanno creato il braccio bionico:

Il meccanismo distingue i movimenti dei muscoli del petto che sono stati ricuciti al ceppo di nervi che una volta erano collegati al braccio mancante. In preparazione all’operazione Kuiken ed i suoi colleghi chirurghi per prima cosa hanno ricreato un pannello di controllo biologico per una mano, sul petto della persona amputata. E già qui c’è stata la prima evoluzione: la prima versione del braccio bionico richiedeva l’eliminazione di una parte del petto stesso, cosa ora non più necessaria e quindi meno invasiva sul corpo del paziente.

Da qui i bioingegneri usano muscoli e pelle che possono essere sacrificati, o meglio, dirottati, per l’operazione di collegamento arto meccanico/corpo.

Il fulcro dell’operazione è il “motore della corteccia del cervello” dove risiede il controllo dei muscoli volontari del corpo. Durante l’operazione vengono tagliati i nervi di due muscoli del petto, nel punto in cui si diramano in minuscoli filamenti. Quindi vengono collegati ai nervi che una volta andavano all’arto perduto. Nello stesso momento i nervi che trasmettono le sensazioni dalla pelle del petto vengono collegati ai nervi dell’arto.

Nell’arco di parecchi mesi i nervi del braccio crescono nella guaina del “motore”, mentre il paziente si ritrova doversi esercitare mentalmente a muovere la mano inesistente. Simultaneamente i nervi crescono nella zona dei sensori e nella pelle.

La protesi viene poi attaccata alla spalla e al torso in modo che gli elettrodi di posizione dei muscoli del petto possano rispondere a differenti istruzioni manuali. Questi elettrodi a loro volta sono collegati ad un computer e ai motori dell’arto biomeccanico.

Così, quando il paziente invia l’ordine alle dita di chiudersi, i muscoli del petto designati all’operazione di contraggono e gli elettrodi sopra di loro attivano il motore appropriato.

Anche in questo caso si è avuta un’evoluzione, dagli originari 3 motori si è passati a sei, in grado di compiere movimenti un po’ più elaborati.

Ora Claudia sta sperimentando un nuovo prototipo, con un ambizioso obiettivo: riportare anche il senso del tatto alla mano artificiale e compiere azioni sempre più vicine a quelle di una mano vera.

Se volete saperne di più potete andare al link indicato più sotto.

Che dire, a volte il futuro sembra un po’ meno cupo, non credete?