All'inizio arriviamo in surf in Corea. E' la Corea del Nord, quella cattiva e comunista. Infatti il cielo è sempre plumbeo, le strade piene di fango e tutti hanno il ghigno assassino di chi non concede ne merita pietà. Il giovane e psicopatico figlio del locale politico e militare al comando, colleziona veloci e colorate auto occidentali che vengono pulite e lucidate da una piccola schiera di leccapiedi che evidentemente in quel pantano non hanno niente di meglio da fare. Il caro vecchio Bond (per la quarta volta col volto di Pierce Brosnan) viene catturato e sottoposto a torture che vanno dall'acqua gelata al fuoco. Partono i titoli di testa: per rendere meglio l'atmosfera anche gli spettatori sono sottoposti alla tortura di sorbirsi la peggior Bond-song dai tempi di Nancy Sinatra, mentre sullo schermo figure femminili di ghiaccio e di fuoco si frantumano e si incendiano, con sinistri richiami alle torture che il protagonista va subendo nei 14 mesi di prigionia. Ecco, il fallimento di questo "nuovo" 007 è già rivelato. Non c'è magia, ne sogno, ne fantasia. Siamo al fantasma di quello che i titoli dei film di Bond erano in passato: un gioco nel gioco. Anche le allusive forme dei corpi sono ormai prive di ogni gradevolezza associabile all'erotismo, alla seduzione. Riparte il film e l'insopprimibile agente entra in un hotel (di lusso, ovviamente) di Hong Kong in pigiama. Tocco di irresistibile umorismo, probabilmente, per quei geni degli sceneggiatori. A Londra 007 viene curato a dovere e rimesso in sesto sotto l'occhio sospettoso della sempre più arcigna M (una Judi Dench sempre fuori parte in abiti contemporanei) per approdare poi nell'assolata Cuba dove dalle acque ecco emergere (rigorosamente al rallentatore in perfetto stile pubblicità) l'agente americano zero-zero-tette Jinx (Halle Berry). C'è una clinica estetica su cui indagare ed i due sopravvivono ai soliti ammazzamenti ed esplosioni, poi si dividono per ritrovarsi qualche tempo dopo nella gelida Islanda, dove dovranno vedersela col cattivo di turno Gustav Graves (l'attore Toby Stephens). Qui non mancheranno le solite manichee scene di seduzione ad opera dell'agente con licenza di sedurre, che certamente si esibirà nell'immancabile guida spericolata a bordo del suo ultimo giocattolo, la macchina invisibile, mentre il solito satellite distruttore cerca di farlo fuori dall'alto dei cieli...

Diciamolo subito: dopo 20 film e 5 attori che si sono susseguiti nell'interpretarlo il cosiddetto mito di James Bond mostra ormai la corda. Il dinosauro misogino, come è stato definito, creato da Ian Fleming rimastica per l'ennesima volta lo stesso tritissimo copione. L'appeal del mito Bond sulle masse col Q.I. giusto nella media è sempre stato basato sul mescolamento tra azione, armi, violenza, macchine e donne. Chiunque avesse un minimo di cervello si è sempre divertito alla improbabili imprese di questo superagente sciupafemmine solo perché fruibile nella sua piacevolissima dimensione iper-reale e fumettistica. Lee Tamahori, il regista neozelandese di Once were warriors, rinuncia a questa dimensione e dichiara di aver voluto "rinnovare" il personaggio affrontandolo con tono più realistico. Grave errore: cercando di renderlo più reale ne distrugge al tempo stesso l'aspetto autoironico. Intendiamoci, le battutine cretine ci sono sempre nel copione, è l'impostazione voluta dal regista che le rende nulle e inefficaci. Tamahori ha certamente polso e grinta per dirigere un certo tipo di film (come ha dimostrato in Scomodi omicidi e Nella morsa del ragno) ma l'approccio tongue-in-check tipico della formula bondiana certamente non rientra tra le sue corde. Un po' come far dirigere a Franco Zeffirelli un film di arti marziali con Bruce Lee. No. Proprio no.

Questo ventesimo Bond finisce con l'essere un iperviolento, razzista e gelido film d'azione infarcito di pubblicità occulta e che cerca di far concorrenza alle pellicole tutte azione con Vin Diesel. Gran spreco di dollari e sterline giusto per garantire almeno una confezione all'altezza del, ehm...., mito. Sarebbe un film da una stella di giudizio se non fosse per le efficaci scenografie della parte ambientata in Islanda e per la perla nera Halle Berry (speriamo si concretizzi l'idea di vederla in un Jinx-film tutto suo, magari diretta da un regista che abbia il necessario tocco leggero per dirigere commedie d'azione). Alla fine si rimpiange quasi la palese cretineria di Austin Powers. Almeno li l'imbecillità delle storie è dichiarata sin da subito e il divertimento nasce dall'assurdità delle situazioni, senza pendersi affatto sul serio.