Meno intereressante di un episodio mediocre di Star Trek, più indietro degli androidi problematici di Alien o Terminator, L'uomo bicentenario è figlio di una fantascienza in stile Disney, lontana da qualsiasi ambizione culturale o filosofica. Robin Williams è un robot che conquista l'autocoscienza e la cui massima aspirazione non è quella di evolvere in una forma di vita superiore, bensì diventare uomo. E che uomo! Mica uno qualunque, bensì un appartenente alla high class americana, con una casa in riva al mare e un bel po' di soldini da parte. Il concetto di umanità viene ridotto alla sua sfera sensoriale (dalle puzzette al sesso) e il male, il dolore, la miseria, l'orrore connesso all'umanità vengono non solo rimossi completamente, ma nemmeno menzionati. Non basta nemmeno un'inevitabile storia d'amore ad appassionare. L'uomo bicentenario è una pellicola fondata su innumerevoli certezze e postulati che sono frutto di una triste e banale rivisitazione della fantascienza asimoviana e di altri autori che non citiamo per timore di venire insultati per averli tirati in ballo. Strutturalmente L'uomo bicentenario è un film senza passione che racconta l'avventura di un robot che ci mette duecento anni a diventare uomo nel senso più pieno del termine. Non c'è tensione, non c'è passione, non c'è nemmeno possibilità (concetto tremendamente razzistaŠ) di potere evolvere verso una forma di vita nuova (non necessariamente migliore) che diventi l'anello di congiunzione tra uomo e macchina. Ci sono due divisioni in blocchi (ma perché poi?) o uomini o robotŠil resto non contaŠ Una banalizzazione deprimente, affogata in un film mellifluo diretto da quel re Mida al contrario Chris Columbus che svilisce ogni storia affascinante che incontra.