Un Walter Benjamin dei nostri tempi

di Daniela Guardamagna

Daniela Guardamagna (Milano), docente di Letteratura inglese all'Università di Roma “Tor Vergata”, critico e traduttrice-adattatrice per il cinema, il teatro e la televisione, è autrice di varie monografie e saggi su temi utopici e sulla distopia, occupandosi di autori come Swift, Huxley, Orwell, Burgess, Dick, Le Guin e di cinema fantastico. Ha inoltre scritto articoli e volumi su Shakespeare, sul teatro elisabettiano e giacomiano e sul teatro inglese contemporaneo. Si ricordano qui Analisi dell'incubo. L'utopia negativa da Swift alla fantascienza (Bulzoni 1980), La narrativa di Aldous Huxley (Adriatica 1990), Il teatro giacomiano e carolino (Carocci 2002), The Tragic Comedy of Samuel Beckett (editor, con Rossana Sebellin, Laterza 2009), il numero monografico di Memoria di Shakespeare 8, On Authorship (editor con Rosa Maria Colombo, 2012), la monografia Thomas Middleton, drammaturgo giacomiano. Il canone ritrovato (Carocci 2018) e la curatela Roman Shakespeare: Intersecting Times, Places, Languages (collana "Cultural Intersections" diretta da Barrie Bullen, Oxford: Peter Lang, 2018).

Il mio titolo si ispira all’ottima e approfondita recensione dedicata a Defined by a Hollow da Carl Freedman, dell’Università della Louisiana, che l’ha pubblicata su Extrapolation nel 2011. Il titolo, e la definizione che Freedman riserva a Suvin, è “un Adorno dei nostri tempi”. Chiunque sarebbe fiero di essere ricordato in questo modo; ma sono certa che Darko Suvin (Emerito della McGill University, Fellow della Royal Society of Canada, autore di quindici volumi e centinaia di saggi che sono stati pubblicati e continuano a uscire in tutto il mondo, dalla Russia al Giappone: recentissima è la sua ultima opera, In Leviathans Belly: Essays for a Counter-Revolutionary Time, 2012) non si sente particolarmente vicino al grande critico. I suoi saggi intessono continuamente un profondo e intenso dialogo con i maîtres-à-penser – vivi e morti – che ha scelto come suoi compagnons de route: da Marx a Benjamin, dal contemporaneo Fredric Jameson a Brecht (a cui Suvin ha dedicato varie opere).

Questo volume contiene saggi e poesie scritti dagli anni Settanta ad oggi, con un inedito e alcuni scritti ampliati e riveduti. Suvin è indubbiamente il maggiore esperto vivente di fantascienza e utopia (non è necessario ricordare in questa sede il suo fondamentale Metamorphoses of Science Fiction – in cui si fa risalire la genealogia della sf a Luciano di Samosata e ad Apuleio); è anche un grande pensatore politico, e i suoi saggi denunciano le mostruosità del capitalismo nella sua veste più feroce, gli inganni dell’ideologia, e indicano l’opportuno ruolo degli intellettuali, che dovrebbero smascherarli e renderne consapevole chi li legge o li ascolta.

Come scrive Philip Wegner nell’Introduzione al volume, i primi sei saggi sono più tradizionalmente accademici, anche se – devo aggiungere – superano ampiamente la norma nella loro lucidità intellettuale e nell’ampiezza di visione; i dodici successivi sono più sperimentali, e l’atteggiamento che li informa è testimoniato dalla modalità aperta e stimolante di alcuni titoli: “Dove ci troviamo? Come ci siamo arrivati? Ci sono vie d’uscita?”; “Qual è il nostro ruolo di intellettuali nel mondo post-fordista?”

Gli interludi poetici testimoniano dell’intensità emotiva dei processi intellettuali di Suvin, e fungono da contrappunto ai prodotti della sua ricerca intellettuale con frammenti della sua biografia interiore, davanti agli orrori della guerra in Serbia o – semplicemente – alle modalità di vita nella contemporaneità. In questo fertilissimo oceano di pensiero e prese di posizione, intendo isolare e sottolineare brevemente cinque punti.

1.        L’utopia come tensione, come modello formalizzatore – come “orizzonte”, nella definizione di Suvin, che la deriva da Husserl e Ricoeur – si interconnette sempre con le modalità di reazione che gli intellettuali devono assumere in un mondo in cui un liberismo feroce e trionfante condiziona la vita umana trasformandola in una distopia realizzata. La visione dell’utopia non come testo statico, spazialmente confinato nelle pagine di un volume, sogno realizzato una volta per tutte; ma come processo dinamico, “vettore perenne di desiderio e consapevolezza [cognition]” (125), come modalità feconda di pensiero che prepara la strada al cambiamento; questa visione dell’utopia è condivisa da Suvin con il pensiero più fertile in quest’ambito, da Mannheim a Bloch, fino a un critico recente come Tom Moylan. Non si tratta dell’Isola Eterna costruita una volta per tutte su princìpi splendidi e ammirevoli, ma – soprattutto negli ultimi decenni – un disegno sempre modificato, una sorta di rivoluzione permanente come sarebbe piaciuto a Zamjàtin, un’utopia critica o fallibile come nell’opera di Le Guin, che rivela la realtà del nostro mondo postulando con enfasi la possibilità di cambiarlo, pur nella consapevolezza dei pericoli sempre incombenti dell’ideologia.

2.    Lo smascheramento della “Disneyfication” come modello di finto Novum. I buoni sentimenti che costituiscono il nucleo del mondo di Disneyland propongono una soddisfazione vicaria di bisogni profondi dell’umanità, incanalandoli in una fittizia utopia di cartapesta, infantilizzata (229, 234) come in un brave new world huxleyano, in una “cosy […] cuteness” consumistica graziosa e dolciastra (231, 234), nella quale lo pseudo-mito mercificato oblitera qualunque pensiero critico, operando in sostegno dello status quo.  Disneyland, così, funziona come una sorta di correlativo oggettivo per descrivere i processi socioculturali operanti nella società capitalistica, che è compito dell’intellettuale scoprire e denunciare. Rifacendosi esplicitamente alle condanne della “pleasure industry” effettuate da Benjamin, Suvin contrappone la dura, aguzza e adulta condanna di una poesia o una prosa “cognitiva” alle reificazioni rassicuranti che conciliano con la realtà com’è, obliterando ogni sgradevolezza, dalla sporcizia alla morte (sia Topolino che Biancaneve risuscitano); il ruolo dell’intellettuale è smascherare l’abolizione del piano trascendente, di ogni tensione volta alla modificazione di una realtà postulata come soddisfacente, dall’orizzonte dei fruitori dell’industria culturale (e qui l’eredità di Benjamin è fondamentale).

3.    Legato a questi due temi è quello della crescente proletarizzazione degli intellettuali: “lavoratori che possono stare seduti” (400), gli intellettuali – specialmente i giovani – sono sempre più marginalizzati, spinti al puro limite della sopravvivenza, con precari lavori part-time e sempre sull’orlo della povertà, cosicché non hanno l’energia e la lucidità necessarie per coprire il loro indispensabile ruolo di coscienza critica dei processi strutturali. Suvin resta senz’altro un marxista troppo solido per ritenere che la soluzione sia puramente letteraria: nel suo modello intellettuali e lavoratori dovrebbero costruire una nuova solidarietà per discutere e combattere il sistema. Ciò nonostante, il ruolo dell’intellettuale per se è di tenere in vita la memoria, smascherando le menzogne dei potenti, elaborando nuovi schemi di comportamento. L’“igiene semantica” della ricerca intellettuale non è un “expert doodling” (236) privo di effetti sul reale, ma la conditio sine qua non per comprenderne i meccanismi, rendendo possibile un’opposizione consapevole.    

4. Il quarto e il quinto punto coincidono con una breve ricognizione delle tecniche formali su cui si basa Suvin per dare solidità all’indagine dei suoi temi. Ribadito nel corso del libro, è centrale – come concetto ma soprattutto come processo – lo straniamento cognitivo: da Shklovskij a Brecht, dallo ostranenie alla Verfremdung, l’operazione mentale proposta da Suvin è un tentativo di vedere il mondo come se le assurdità che siamo stati anestetizzati a considerare normali fossero nuove, e di conseguenza giudicabili – con meraviglia. La procedura è comune negli scritti utopici e nella satira, da More a Montesquieu, Voltaire, Orwell alla social science fiction fino a Joanna Russ o Le Guin (alla quale Suvin dedica lo splendido saggio conclusivo). La posizione virginale di un ingénu o di un marziano in visita al nostro mondo permette al lettore di contemplare la nostra realtà scartando la mortifera consuetudine che la rende naturale, e consente di vederla come modificabile. Il procedimento è semrpe operativo nel pensiero di Suvin; ma alcuni piccoli dettagli meritano di essere seguiti. Per esempio, quando Suvin definisce il terrorismo come “una strategia consistente nel perseguimento del potere politico incutendo timore nella popolazione civile tramite uccisioni esemplari” (13), sullo sfondo intravedo incombere la grande ombra di Swift, mentre ci dice che “a soldier is a Yahoo hired to kill in cold blood as many of his own species, who have never offended him, as possibly he can” (293), o descrivendo gli effetti della polvere da sparo: “dying groans, limbs flying in the air, smoke, noise, confusion, trampling to death... And to set forth the valour of my own dear countrymen, I assured him, that I had seen them blow up a hundred enemies at once in a siege […] and beheld the dead bodies drop down in pieces from the clouds, to the great diversion of all the spectators” (294): procedure awareness-raising che, come avrebbe detto Brecht, risvegliano il fruitore di un testo dal torpore dell’immersione empatica nello spettacolo a cui assiste – o del libro che legge –, e lo portano a stare seduto con gli occhi ben spalancati, sveglio e criticamente presente invece che ipnotizzato e cullato, la mente in allerta, e “un sigaro in bocca” (Brecht 16, 19, 23 e passim).    

5. Il mio ultimo punto è un breve commento sullo stile di Suvin in Defined by a Hollow. La qualità della scrittura, anche se si rischia di non rendersene conto, è plasmata dalla novità dei pensieri proposti. Pur operando in apparenza secondo classiche norme intellettuali (con l’eccezione delle belle poesie, affrontate nella presentazione da Caterina Ricciardi, e che sono davvero meritevoli di riflessione), il contenuto del novum crea una forma nuova e non pretenziosa: swiftianamente feroce in alcuni punti (“Non abbiamo altra scelta che proporre la più audace delle utopie, che oggi significa, tanto per iniziare, non il paradiso terrestre ma prevenire l’inferno sulla terra. Solo mobilitando il paradiso o l’utopia è possibile sconfiggere l’inferno o il fascismo”; 259), ironica molto spesso, fondata come già detto sul tratto stilistico dello straniamento, diventato un’abitudine costante nella mente allenata al dubbio creativo dell’autore. Nei giochi di parole delle apostrofi pseudo-colloquiali (una citazione casuale: “Nella nuova British Library di Camden ho notato, con sorpresa e un po’ di piacere, l’insegna davanti alle scale con la scritta ‘porta allarmata’. Vorrei che questo libro avesse una simile funzione per te, Lettore”; 14), l’apparente domesticità dello stile si intreccia con echi provenienti da tutte le letterature mondiali, che Suvin conosce bene e spesso legge in originale: l’appello al Lettore fa richiamo ad autori che sono molto lontani dalla sua visione della vita, da Baudelaire alle Bronte a T.S. Eliot.

Ancora: sottilmente, l’istintiva political correctness di Suvin (anche per quanto riguarda le questioni di genere) si trasmette allo stile; così, se per un tempo immemorabile si sono utilizzati, senza rifletterci, pronomi e sostantivi maschili per entrambi i sessi, perchè non usare il femminile tanto per cambiare, e dire che: “[t]he reader should draw her own conclusion” (“chi legge tragga le sue conclusioni” è ripetuto varie volte nel testo, 396 e passim, e non esiste una forma italiana equivalente: reader può riferirsi ai due sessi, e normalmente seguirebbe un aggettivo possessivo maschile; invece Suvin sceglie un possessivo femminile: perché non dovremmo?). In maniera sommessa, questo accade diverse volte nel libro, e ci rendiamo conto di aver accettato una nuova forma, forse con un piccolo mutamento nei nostri presupposti: ed è questo che Suvin, come gli scrittori e scrittrici che descrive, ci chiede di fare in ogni parola che riempie queste pagine. 

Bibliografia

Brecht, Bertolt. Schriften zum Theater. Über eine nicht-aristotelische Dramatic, 1957. Ed. it. Scritti teatrali, trad. Emilio Castellani, Roberto Fertonani e Renata Mertena. Torino: Einaudi, 1962.

Freedman, Carl. An Adorno for Our Time. In Extrapolation 52.1 (2011): 110-16.

Suvin, Darko. Defined by a Hollow: Essays on Utopia, Science Fiction and Political Epistemology. Bern: Peter Lang, 2011.

---. In Leviathans Belly: Essays for a Counter-Revolutionary Time. Baltimore, MD: Wildside P for Borgo P, 2012.

---. Metamorphoses of Science Fiction. New Haven: Yale UP, 1979. Ed. it. Le metamorfosi della fantascienza. Trad. Lia Guerra. Bologna: Il Mulino, 1985.

Swift, Jonathan. Gulliver’s Travels, 1726. Ed. Michael Foot. Harmondsworth: Penguin, 1967.