Paolo Bertetti, Conan il mito

Paolo Bertetti. Conan il mito. Pisa: ETS, 2011. € 15

di Salvatore Proietti

Salvatore Proietti insegna Letterature anglo-americane all'Università della Calabria, ed è direttore di Anarres. Fra i suoi lavori più recenti, la cura di Henry David Thoreau, Dizionario portatile di ecologia (Donzelli 2017), e saggi su Samuel R. Delany (Leviathan, A Journal of Melville Studies, 2013) e sui conflitti razziali in Philip K. Dick (in Umanesimo e rivolta in Blade Runner, a cura di Luigi Cimmino et al., Rubbettino 2015), e una panoramica storica della SF italiana (in Science Fiction Studies, 2015), oltre alla riedizione della traduzione di Paul Di Filippo, La trilogia steampunk (Mondadori 2018). 

Informalmente distribuiti nella teoria culturale e letteraria, antiche parole stanno trovando una nuova presenza: epica, mito. Negli ultimi anni, un importante filone ci ha portati alla ricerca della grande epica moderna, frammentaria e incongrua (Franco Moretti), e poi a verificare quanto di anti-organicamente frammentario, incompiuto e plurimo ci sia anche nelle epiche più classiche, se lette senza filtri culturali a priori (Wai-Chee Dimock). Ed è sempre più palese la presenza (in ogni campo istituzionale) di sistemi testuali al centro dei quali non c’è tanto l’autore singolo quanto un apparato di ricreazione e riscrittura collettiva che prescinde totalmente dall’attribuzione identitaria di una forma espressiva a sfere istituzionali come highbrow o lowbrow, rifiutando l’equazione (romantica, modernista) tra valore artistico e radicale individualità autoriale. Nello studio di Paolo Bertetti sulle vicende testuali di Conan, ladro-avventuriero-fuorilegge creato sulle pagine dei pulp anni Trenta dal texano Robert E. Howard, il termine scelto è quello di mito, e il riferimento diretto il transmedia storytelling teorizzato da Henry Jenkins. Le coordinate ci paiono analoghe.

Nella modernità post-epica (Bachtin), ci aveva ricordato Roland Barthes, i miti d’oggi sono storie di secondo grado, che evidenziano la propria natura testuale. Se la visione mitica è predicata su un consenso che presuppone un’introiezione così totale da (pretendere di) essere inarticolabile (Furio Jesi), qui l’irriducibile rimando da un testo all’altro rende sempre visibile l’origine. La posta in gioco è, ancora una volta, una visione democratica dell’attività artistica.

La struttura di Conan il mito è in due parti: la prima, più breve ma solo apparentemente introduttiva, presenta i presupposti teorici con una sinteticità che la rende un’ottima risorsa nel contesto didattico, la seconda elabora il case study specifico in una carrellata godibile quanto approfondita. Nella collana di “semiotica dell’audiovisivo” La piazza immaginaria, diretta da Romana Rutelli, almeno un altro volume (l’interessante Matrix and the City: Il corpo ibrido nel cinema e nella cultura visuale, di Francesca De Ruggieri, 2006) si era occupato di generi fantastici: il segno di un’attenzione non casuale.La prima parte, dunque, ripercorre una serie di riflessioni sul tema del personaggio, dai Formalisti russi, passando per Saussure, Lévi-Strauss e Barthes, fino a Greimas, Eco e a importanti lavori in corso, in Italia, su altre figure testuali la cui forza risiede anche nell’aver varcato i confini della fonte originaria (da Pinocchio a Montalbano). Si tratta di una riaffermazione dello strutturalismo come metodo per un progetto di desacralizzazione dell’entità di volta in volta chiamata personaggio, attante, attore, ecc.: sempre innanzitutto costruzione verbale, il cui statuto è sempre determinato soltanto dal testo e non un’autorità (mitologica, biografica, psicologica) pre-testuale. Nella ricostruzione di Bertetti, il testo stesso appare valorizzato non dalla sua singolarità quanto dalle interrelazioni e filiazioni che riesce a instaurare. In Lévi-Strauss “un mito non si ha mai nella sua interezza in una singola redazione, in un singolo testo [ma] soltanto all’interno del ‘corpus’ mitico”; al contrario, a determinarne la rilevanza sono “le trasformazioni cui […] va incontro” (39). Non vediamo alcun motivo per cui questo approccio non possa andare oltre gli ambiti delle letterature classiche o della cultura di massa: oltre Ulisse e Conan, riguardando anche il dr. Faust o personaggi che, come Leopold Bloom, “trasformano” anche il proprio nome in opere che continuano a riscriverlo in maniera non meno seriale pur nella finzione modernista di unicità testuale. Sono lezioni che, d’altra parte, il teatro e il folklore hanno sempre insegnato. Drammi e ballate vengono ri-redatti e modificati in ogni performance, in ogni variante: la concezione plurale dello storytelling non è monopolio dell’antichità, né dell’avanguardia postmoderna.

Nello specifico della sua ricostruzione strutturalista, Bertetti sviluppa un modello incardinato su una serie di distinzioni interne al dispositivo testuale del personaggio, tra cui quella più importante e precisa ci sembra quella fra semantica “propria”, sintassi relazionale e identità assiologica, tutte da analizzare in termini di un continuo processo di interpretazione e reinterpretazione, permanenze e mutamenti di vario tipo. Il capitolo conclusivo ripercorre questi tratti in diverse storie dedicate a Conan.

In tutto questo, ci sia permesso di segnalare l’eccessivo proliferare di refusi nei nomi (anche non del tutto oscuri), nonché la rigidità di alcune scelte redazionali relative alle iniziali (che porta a usi privi di riscontro effettivo nella firma effettivamente utilizzata, che dovrebbe essere l’unica forma lecita di attribuzione di un nome; due esempi: a p. 46 J.R.R. Tolkien diventa “John R.R. Tolkien” e a p. 59 P. Schuyler Miller si sdoppia in “Peter Schuyler Miller” e “P.S. Miller”). Si tratta di minuzie che, comunque, nulla tolgono alla meticolosa ricerca dell’autore.

La “Premessa” motiva piuttosto bene la scelta di questa icona popolare:

Se ormai è abbastanza acquisito riconoscere ai generi di massa livelli di profondità di senso e di significanza, pare più difficile non prenderli in considerazione soltanto come un deposito di materiali da cui attingere per operazioni più ambiziose; alla fine, cambia tutto per non cambiare niente: si continuano ad esaltare singole figure in qualche maniera eccezionali, ieri Raymond Chandler o Ray Bradbury, oggi Philip Dick o Joe Lansdale, col rischio di snaturarle, senza approfondire i profondi rapporti che legano questi autori alle convenzioni, le tradizioni figurative, le strutture narrative, insomma al patrimonio comune dei generi popolari. (7)

E allora leggere Conan significa leggere tanti Conan. Al rapporto tra Robert E. Howard, il suo creatore originario, e le modalità della narrazione orale abbiamo accennato in un articolo qui citato [http://www.fantascienza.com/magazine/servizi/8799/ombre-rosse-rileggendo-robert-e-howard/]. Se Bertetti concorda sull’internità di Howard alla tradizione e alla retorica della letteratura dell’Ovest statunitense (anche Conan non fa altro che inseguire e attraversare frontiere), si sottolinea anche come, in varie stesure dei racconti, il personaggio centrale si modifichi (una stessa storia può ricevere adattamenti non da poco per servire i fini di Conan il fuorilegge o quelli di Kull il re). Per questo è giusto seguire, come succintamente fa Bertetti, anche personaggi successivi che non si chiamano Conan e non sono scritti da Howard, ma che a “lui” si richiamano – una filiazione, aggiungiamo, che i lettori dell’epoca avrebbero senz’altro riconosciuto: su tutti, è lo Elric di Michael Moorcock che riceve maggior attenzione (92-94). Il “corpus conaniano”, dunque, può anche includere sia altre creazioni di Howard, sia i romanzi che al personaggio hanno dedicato altri autori. Al fenomeno editoriale degli “apocrifi” (che si apre in una vena transnazionale, con lo svedese Bjorn Nyberg) a partire dagli anni Sessanta sono dedicate diverse pagine (56-66): dalla versione “imborghesita” di L. Sprague De Camp e Lin Carter, il modello principe per un ventennio, a quella francamente dozzinale (con, temiamo, più di una spruzzata di ideologia iper-machista à la Gor di John Norman) che si impone negli ultimi anni.

Ma la mappa tracciata da Bertetti va oltre la letteratura scritta. La storia fumettistica di Conan si apre con il tratto “quasi preraffaellita” dell’inglese Barry Windsor-Smith e prosegue fino a oggi. Con Schwarzenegger, quella cinematografica riprende dalle illustrazioni di Frank Frazetta un’icona molto diversa dal Conan di Howard, e soprattutto riscrive la sua vicenda come “un vero e proprio racconto di formazione” (74); il secondo film sarà meno visionario (ma, aggiungeremmo, meno ideologico). Di cinema e fumetto si descrive una parabola qualitativamente discendente, mentre pionieristica e innovativa appare l’analisi delle produzioni televisive (animazione compresa) e di vari tipi di giochi (ormai da dichiarare una forma a sé stante, la più recente tra le modalità del raccontare).

Se quella di Bertetti è una mappa, ovviamente non si può esplorare nel dettaglio ogni angolo del territorio; il suo obiettivo è creare collegamenti, consentire a ogni aspetto di illuminare gli altri. L’obiettivo è pienamente riuscito. Gli spunti di approfondimento possibile ci sembrano legione, a partire dallo stesso Howard, scrittore vero nonostante la breve carriera: intorno al suo Texas e alla sua dust bowl si può continuare a riscoprire contesti, costruire legami sincronici e filiazioni diacroniche. E, come già accennato, la prospettiva può diventare globale, dall’Italia alle Filippine. La mappa “transmediale” di Bertetti, con la ricchezza dei dati analizzati, apre anche una quantità di domande per ulteriori ricerche: è ciò che fanno i buoni libri.