I nostri sono anni in cui la fantascienza mira alla sofisticazione letteraria, e a volte rileggere l’era pulp sembra un’immersione nell’infanzia, in una ingenuità che crediamo, e forse speriamo, superata. Ma è da lì che tutto è cominciato. Negli anni iniziali della SF, il gigante era .

Il suo western marziano è ingenuo e semplicistico, ma trova imitatori in Otis Adelbert Kline e nei mondi subatomici di Ray Cummings, e soprattutto in un’immensa tradizione fumettistica, quella di Buck Rogers e Flash Gordon. Da lui deriva gran parte delle banalità che tutta una tradizione di critici e autori ha identificato (a ragione o a torto) con la space opera. Ma se nella coscienza collettiva degli appassionati di fantascienza esiste qualcosa di equivalente a un modello classico, piaccia o no, dobbiamo pensare proprio a Burroughs. Per esempio, la storia di invasione di Wells e il romanticismo di Burroughs, insieme, rappresentano il default del Marte fantascientifico, con cui tutti i loro successori dovranno fare i conti.

Ai western manichei di Burroughs reagisce, dopo pochi anni, un’autrice capace come Leigh Brackett, che riscrive le sue ambientazioni in maniera eversiva e “nera”. Mezzo secolo dopo, Robert A. Heinlein renderà un ironico omaggio a Burroughs nel migliore e più scanzonato fra i suoi tardi romanzi, Il numero della bestia, battezzando in suo onore la simpaticissima gattina del protagonista col nome di Deety. Pastiche burroughsiani (marziani o altro) sono stati scritti da Fritz Leiber, Philip Jose Farmer, Michael Moorcock, Joan D. Vinge e altri. Mentre scrivo queste note, sta uscendo in italiano The Empress of Mars di Kage Baker, un altro ammiccamento a partire dal titolo. Evocare Marte, anche in modo revisionista, significa evocare Burroughs.

Del Marte americano, ho parlato in un articolo su Delos n. 88 (http://www.fantascienza.com/magazine/speciali/6657), di cui qui riprendo alcuni paragrafi. A sua volta, Marte diventa il modello per tutti gli scenari planetari di Burroughs, che andranno da Venere alla luna e al centro della terra.

Nei pulp, Marte sta prendendo la direzione del romanticismo più smaccato. Edgar Rice Burroughs sicuramente non pensa a un futuro di leggenda culturale quando, nell’estate 1911, sottopone a All-Story un manoscritto incompleto dal titolo Dejah Thoris, Princess of Mars, spinto anche e soprattutto dall’andamento fallimentare delle vendite di un tipo di temperamatite di cui era inventore. La risposta del redattore è incoraggiante, e a settembre Burroughs invia la versione definitiva, che esce a puntate l’anno successivo col titolo Under the Moons of Mars, "sotto le lune di Marte". Il suo Marte, ribattezzato "Barsoom", discende dal West di Fenimore Cooper, dall’India di Kipling e dall’esotismo di Rider Haggard, popolato

da nobili pellirosse e barbari di color verde, con un protagonista e un contorno di altri baldi eroi sempre intenti a salvare donzelle seminude in eterno pericolo. C’è molto di nostalgico nella creazione di Burroughs, e per molti elementi il romanzo guarda indietro, non avanti. John Carter unisce il rimpianto per le (presunte) virtù cavalleresche dei Sudisti a quello per una Frontiera e un Ovest ormai in gran parte scomparsi dalla realtà americana. A guardare con attenzione, la fantascienza di Burroughs è molto vicina alla fantasy, a partire da quel viaggio interplanetario mai giustificato nelle modalità.

All’inizio di Under the Moons of Mars, inseguito dagli Apache in Arizona, l’ex capitano dell’esercito confederato John Carter si ritrova su Marte. Non ci sono convincenti spiegazioni per il viaggio, si parla solo di vapori soporiferi. È solo un viaggio mentale? Sicuramente c’è molto di onirico nelle sue avventure, per quanto basate sulle speculazioni di astronomi come Percival Lowell.

Il Barsoom in cui John Carter si risveglia è un mondo semi-medievale nelle istituzioni, con città-stato in continua guerra fra loro e pericolose tribù nomadi. Si innamora di Dejah Thoris, la bella principessa della città di Helium, e dopo ripetuti salvataggi, avventure, alleanze e battaglie, corona il suo sogno col matrimonio. A questo proposito, è impossibile non notare come gli abitanti — e soprattutto le abitanti — di Marte, presentati come ovipari, mettano in mostra un’apparenza fisiologica rigorosamente mammifera. Quando, dopo dieci felici anni di vita coniugale, il sistema di mantenimento artificiale dell’atmosfera comincia a malfunzionare e minaccia la vita sul pianeta, Carter prova a fuggire… e si risveglia nella grotta da cui era partito. Per lui e per il lettore, comunque, ci saranno numerosi ritorni a Barsoom.