Il dopobomba stesso non è una novità assoluta in Dick. Già Il mondo che Jones creò e Redenzione Immorale (entrambi del 1956) mettevano in scena dei futuri post-catastrofici. Il mondo di Jones è quello uscito da un terribile conflitto con il blocco arabo-cinese, che aveva portato alla nascita di un sistema filosofico noto come Relativismo di Hoff, che predica tolleranza di idee e fedi e persecuzione degli intolleranti (come furono coloro che portarono alla rovina). La dottrina è adottata e applicata con rigore dal Gofed, finché sulla scena politica non compare Floyd Jones, un precog che in breve si impone come alternativa al sistema e diventa il comandante in campo di un’umanità in lotta contro una pacifica invasione aliena. Le conseguenze della devastazione atomica sono ancora evidenti, ma le esplosioni, l’esodo dei profughi, il collasso dell’America vengono frequentemente rivissuti nei ricordi di Jones, all’epoca dell’Olocausto poco più che bambino. Anche in Redenzione Immorale abbiamo un governo dispotico propugnatore di un moralismo intransigente e costretto ad affrontare il problema della sovrappopolazione dopo che una guerra atomica totale ha causato distruzioni, fame e miseria sulla Terra.

Ma forse le altre incursioni più significative nei territori nucleari, Dick le scrive nella storia della fantascienza con Tempo fuori luogo (1959, noto con una miriade di titoli alternativi, come L’uomo dei giochi a premio, Il tempo si è spezzato, Tempo fuor di sesto), La Penultima Verità (1964) e Il cacciatore di androidi (1968, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?). Nel primo, più che di fronte a un vero e proprio dopoguerra, ci troviamo in un eterno presente congelato – come spesso accade in Dick – in pieni anni Cinquanta. Ragle Gumm è un disoccupato donnaiolo che passa le sue giornate a partecipare ai concorsi di un quotidiano, e che improvvisamente comincia a sospettare che il mondo che lo circonda (la provincia americana, la vita domestica, i suoi stessi familiari) non siano altro che fondali e attori di una messinscena costruita a suo uso e consumo. La scoperta finale lo mette di fronte alla prova verificata dei suoi sospetti, ma la realtà riesce a rivelarsi addirittura peggiore dei suoi peggiori incubi: la Terra è infatti in guerra contro le colonie lunari e il gioco a premi che lui periodicamente risolveva per la rivista era in realtà un sofisticato sistema congegnato dalle autorità militari per sfruttare il suo talento e individuare in anticipo i bersagli delle bombe lunari, onde predisporre adeguate contromisure d’intercettazione. Un libro, questo, che per l’ambientazione anticipa film come Dark City di Alex Proyas (1997) o l’acclamato The Truman Show di Peter Weir (1998), e il cui protagonista sembrerebbe aver fornito l’ispirazione nientemeno che a Thomas Pynchon per il Tyrone Slothrop del suo colossale Arcobaleno della Gravità (1973, libro ipertrofico, epocale, enciclopedico e, per questo, memorabile e inevitabilmente apocalittico).

La Penultima Verità ci trasporta invece in un mondo in stato di guerra, ma anche qui la realtà è un’illusione costruita ad hoc dal regime per tenere a freno le pulsioni e le aspirazioni della popolazione. La guerra è in realtà conclusa da tempo e mentre i cittadini-operai delle antiche potenze belligeranti si ammassano in disumani alveari sotterranei, i potenti si sono spartiti il dominio della superficie.

Nel Cacciatore di androidi il tema dell’illusione non riguarda più lo scenario politico e sociale del day-after. Nell’opera che fornì a Ridley Scott l’ispirazione per il suo capolavoro cinematografico (Blade Runner, 1982) il tema dell’inganno si trasferiva sulla natura umana o artificiale delle persone, con la contrapposizione tra esseri organici e androidi. Ma anche qui rientra a più livelli il tema della distruzione: dal genocidio dei replicanti ribelli condotto con sistematica cura dai cacciatori a premi della Polizia, all’Ultima Guerra Mondiale che ha reso la Terra molto simile a un limbo invivibile, scatenando un’inaudita proliferazione di malformazioni fisiche e disturbi mentali, insieme a una minaccia più subdola e letale. Il kipple (talora tradotto come “palta”) è la «materializzazione del non-essere», la negazione di ogni possibilità, la fine di tutte le cose: una massa amorfa che tende a inglobare in sé tutti i rifiuti e gli scarti della civiltà, evolutasi dalla cenere tossica del fallout radioattivo, cristallizzata in una stasi eterna, ma vorace e – a suo modo – viva. Il peggior incubo, forse, generato da un conflitto su scala globale che ha decimato l’umanità e tolto ogni speranza di riscatto ai superstiti.