Mattia alzò lo sguardo al cielo. - Mi sa che verrà giù anche un bel nebbione. - Di quelli solenni, puoi star sicuro. Di', Spartaco ci vede bene? Udirono il lontananza il guaito di un cane. - E' vecchio e gli devo togliere spesso la cispa con il co­tone... ma ha l'uccello che gli tira ancora come un toro. Mentre a te ti è diventato moscio come un finferlo. Il compagno alzò il medio e gli mollò un pacca sulla schiena. - La sberla me la tengo nel palmo... per quando sono meno sbronzo e posso beccarti senza rotolare nel lago. Te portati il toro.

Fece un passo barcollante e si cacciò i pugni in tasca. - Puntuale, tarlucco.

- A domani, Castagna.

Lanciò un'altra occhiata al crepuscolo, si lisciò la folta barba biondastra e scese verso casa, ciondolando sulle gambe.

* * *

La bimba ciabattò guardinga fino alla porta; le suole raschiavano e grattavano sul pavimento. Sopra il tavolo la brocca scompose uno degli ultimi raggi di sole in un fulgido arcobaleno che andò a stamparsi sullo stipite dell'uscio; ultimo riverbero di un crepuscolo novembrino. Tania si bloccò incuriosita a contemplare il legno nero e ingrommato di sporcizia. Allungò una manina e la ritrasse subito. Spaventata.

Trafitta da un lungo chiodo arrugginito, la piccola lucertola si contrasse in uno spasimo. Appena l'arcobaleno di luce la percorse, sollevò la testa e arcuò la coda. La bocca si richiuse come dopo uno svogliato sbadiglio.

Le lucertole urlano? si chiese Tania piegando la testa per osservarla meglio.

Più sotto un grosso ratto grigio continuò a far gocciolare minuscole stille di sangue e umori nerastri sul pavimento. Il chiodo che emergeva dalla sua schiena era lievemente curvo. Nel punto in cui spariva sotto il pelo ispido e sporco, era anch'esso umido.

E tu, topo?

Tania fece un passo indietro. Il legno scheggiato e bucherel­lato dello stipite brulicava di corpi trafitti: rospi, orbettini, ramarri, scarafaggi, rane, lucertole, uccellini, ratti, mosche. Ognuno con il proprio chiodo conficcato a fondo nel legno. Sorpresi da una morte lenta e doloro­sa di contrazioni involontarie e spasmi lancinanti. Tania aveva visto ogni ora di quelle misere agonie, aveva osservato le creature cedere alla rigidità della morte, chi frullando debolmente le ali, chi muovendo a scatti le zampette fredde, chi spazzolando freneticamente con la lunga coda il legno intriso di sangue secco. Inchiodate, morivano e subito dopo comin­ciavano a rinsecchire e a puzzare. Aveva appena assistito all'ultimo spasmo della piccola lucertola. Le accarezzò la coda e la fece dondolare una dozzina di volte finché non le rimase in mano. Annoiata, la lasciò cadere per terra, si ritrasse e tornò a sedersi al suo posto, dopo avere rimesso le pantofole nell'angolo con le ragnatele e attraversato il tragitto a ritroso sopra il tavolo. Appoggiò le braccine e vi adagiò la guancia, in attesa, gli occhi spalancati sulla superficie tormentata del lungo tavolo di cucina. Presto sarebbe tornato Bronco.

Il mio fratellone.

Sollevò la testa di scatto.

... Quella prospettiva. C'era qualcosa che non andava. Trasalì, fece per muoversi e riparare al danno. Le era tornato il gusto amaro della ruggine in bocca.

* * *

La porta si spalancò cigolando. Bronco rovesciò all’interno, le gambe grasse e stor­te inguainate in calzoni di velluto troppo stretti; il lardo che straripava dalla cintola, i capelli unti gli piove­vano scompostamente sulle spalle enormi. Si liberò del giubbotto e lo gettò lontano, sopra il letto. Barcollò fino alla sedia di fronte a Tania e vi si lasciò cadere come un corpo morto. La bimba lo fissò con il cuore in gola. Forse non se ne sarebbe accorto, forse...

Bronco mise il sacchetto sul tavolo e lo rovesciò sogghignando. Centinaia di chiodi caddero tintin­nando; lunghissimi e cortissimi, grossi e sottili, dritti ed arcuati, lucidi e nuovi, oppure vecchi, sporchi e friabili. Qualcuno era affilatissimo, altri erano spuntati o monchi, o avevano solo un residuo di capocchia.

Gli occhi di Bronco brillarono a lungo, poi si alzarono adagio sulla sorellina. Fra loro c'era solo il recipiente colmo d'acqua. Piegò la testa di lato e aguzzò lo sguardo dalla parte opposta del tavolo. Il vetro bombato gli rimandava di Tania un'immagine deforme e grottesca. Rise sonoramente.

- Sei buffa, Tania. Attraverso l'acqua sei come il tuo fratellone. Fai una boccaccia, piccola.

Tania ubbidì sbuffando dai denti un lungo sospiro di liberazione.

- Va bene questa? - Cambiò espressione. - E questa? Questa invece? Com'è l'ultima?

- Fantastica! - esplose il ragazzo. Stettero qualche attimo in impacciato silenzio. Bronco frugò il locale con gli occhi cerchiati di rosso, due strette fessure che gli davano uno sguardo da animale. Pertugi di pazzia lucida nei quali erano incastonate, in modo irriverente, due purissime gemme di zaffiro. Tania fece dondolare le gambe nel vuoto. Attendeva e sperava.

- Posso avere le mie pantofole, adesso? - domandò con la voce esile.

Bronco tornò a guardarla fisso. Apparentemente senza espres­sione; un devastante nulla che gli attraversava la mente, bruma, fumo... Ritornò al presente, come se fosse appena rincasato da una visita al pozzo delle anime.

- No. Devi ancora imparare i nomi dei chiodi.

Pescò a caso nel mucchietto che aveva davanti e cominciò: - Questa piccina è una bomberina piana e... questa qui, questa piena di ruggine è una cambretta.

Lasciò cadere i due che teneva fra le dita e ne pescò uno strano, piegato a metà. - E' un cancano. Mica l’ho stortato io. E' fatto così il cancano; un gran figlio di buona donna, un'ira di Dio.

Tania si accigliò meditando sul fatto che suo fratello parlasse di un chiodo come se fosse stato un animale o un essere umano. Il pensiero le diede le vertigini.

- E' piuttosto raro. Serve ad appendere le cose pesanti. Io ci appenderò un gatto, credo. Terrebbe su un cane - proseguì tra sé leggendo sul volto della sorella una spaventata incredulità. - Il cancano è un maledetto bastardo... mettiamolo via.

Tania si grattò un piedino. I ciocchi nel camino crepitavano nel silenzio. Ogni tanto uno schiocco la faceva sussultare. Il locale era caldo e ben illuminato... ma c'era un persistente tanfo di morte e putre­fazione. La bambina lanciò una furtiva occhiata allo stipite.