- Assolutamente no - mi disse, sistemandosi meglio sulla poltrona e lisciandosi la giacca un po’ sgualcita. - Nella condizione in cui sono stati portati non vedo più saggezza che nella danza delle api che istruiscono le altre sulle coordinate di un fiore succoso. Secrezioni chimiche viaggianti di antenna in antenna in file operose, ecco a cosa è ridotto il linguaggio. Non esce dalle loro bocche una sola frase che non sia stata già ripetuta milioni di volte, né una parola che non sia stata spogliata di ogni capacità di significare. Una consumazione continua dell’umano.

- Forse, Alfonso, la civiltà era troppo raffinata e scaltra. Era necessario che il fuoco divorasse la foresta perché i fusti ancora verdi potessero vedere il sole.

Alfonso appoggiò il bicchiere sul tavolino e congiunse le mani nodose. Non avevo mai notato prima le venature bluastre che le percorrevano. - Non c’è nessun verdeggiare - mi disse a voce bassa. - Solo braci spente. Stanno tramontando e tu vuoi tramontare con loro. Non so cosa ti attiri. C’è qualcosa laggiù che non ha un volto, non ha rovescio né profondità. Non ha sguardo. Tu ne hai nostalgia. Ma io non ti seguirò.

- Eppure - io dissi - l’universo ha costruito per miliardi di anni le sue vaporose architetture di galassie nel silenzio più profondo. Il linguaggio ha eroso la bellezza del mondo per millenni. Se lo abbandoniamo per un centinaio di anni può darsi che il mondo riesca a a tornare saturo e splendente come il primo giorno della creazione.

Alfonso mi guardò. Dalla piega delle sue labbra compresi che era stato sul punto di replicare e aveva preferito il silenzio.. Allungandoci sulle nostre poltrone aprimmo un intervallo d’aria tra noi e qualcosa nel tremito della sua mano mi disse che nessuno dei due avrebbe avuto la forza di superarlo.

Quando uscii nella notte, la pioggia aveva smesso di cadere. L’aria mite portava l’odore delle foglie morte. Sentii il bisogno di tornare al Cimitero. Molte persone amavano passeggiare di notte alla sua luce che adombrava e moltiplicava quella delle stelle. Già a distanza, dai finestrini dell’aviobus, vidi un insolito assembramento. Una piccola folla si stagliava contro il candore opalescente della struttura di vetro. Tra essa e l’edificio era stata tirata una striscia di plastica bianca e rossa e i poliziotti presidiavano questo precario confine, come se qualcosa di infetto promanasse dal Cimitero. Mi avvicinai poggiando i piedi sulle lingue di terra friabile che separavano le pozzanghere fangose. La folla tumultuava e vociferava. Onde sonore e accenti mutevoli mi investivano. Mi sentii tesa e febbricitante.

- Cosa succede? - chiesi all’uomo che mi stava accanto, dopo essermi fatta strada fino alla striscia d’isolamento. L’uomo mi guardò divertito e turbato insieme.

- Non se ne accorge? - mi disse. - Ascolti! - Io mi sforzai di percepire qualcosa al di sopra del mugghio della folla. Mi voltai per invocare un po’ di silenzio e vidi allora che le labbra di tutti erano serrate, i corpi avvolti nei pesanti cappotti immobili e gravi, gli sguardi fissi all’edificio. Il mio cuore ebbe un contraccolpo mentre mi accorgevo che la marea di urli e balbettii in cui ero immersa proveniva dal Cimitero. Le barriere d’insonorizzazione erano cadute e i morti stavano parlando. Conversavano l’uno con l’altro in un dialogo metafisico e inaudito. Le voci si incrociavano, si sovrapponevano, si intervallavano, crescevano come il rombo del ghiaccio che si spacca nel profondo o cadevano improvvisamente in un lieve nevischio di sussurri. Come specchi che riflettono altri specchi, le voci si alimentavano l’un l’altra e il Cimitero sembrava fatto di pura vibrazione sonora.

All’alba tutto era compiuto. Fu dato l’annuncio che le barriere d’insonorizzazione erano state ripristinate. Nel momento in cui le strisce di plastica furono staccate e riavvolte, la pressione della folla mi spinse all’interno dell’edificio. Non provavo alcun desiderio di tornare alla mia postazione e lasciai che la massa mi spingesse avanti lungo i meandri del labirinto. Mi adagiai in un angolo. Mi addormentai e sognai di giacere sul fondo di uno stagno, senza cognizione né dolore. Quando aprii gli occhi e mi trovai raggomitolata su me stessa, la testa costretta dalle pareti di vetro in una posizione innaturale. Qualcuno mi stava scuotendo le maniche. Mi misi faticosamente seduta e vidi di fronte a me il volto radioso della donna con cui avevo parlato poche ore prima, e il cui marito era sepolto nella postazione di fronte alla mia.

- Sogna sangue chi dorme sul guanciale del tempo - compitò con voce tremante ma già illuminata da una certezza implacabile. - Sogna sangue chi dorme sul guanciale del tempo. Cosa vuol dire? - mi chiese, senza più alcun segno di timidezza.

Mi riavviai i capelli scomposti. - Non lo so - risposi. - Sembra una metafora.

Lei mi guardò fissa senza comprendere. - Dove ha sentito questa frase? - chiesi stupita.

- Me l’ha rivelata mio marito - disse con una nota di trionfo. Mi allungò una delle mani che teneva congiunte in grembo. - Venga a sentirlo anche lei - disse.

La seguii ed entrai nella cupola protetta. L’uomo sullo schermo aveva i lineamenti di un qualsiasi borghese di cinquant’anni dalle guance flaccide e cascanti, la fronte bassa e lo sguardo acquiescente. Ma la voce invasata e perentoria discordava con le sue umili, prosaiche fattezze. Ascoltai.

- La luna gira e si rigira senza pace, una guancia di buio, una di luce. Le stelle sognano di noi e talvolta ne esplodono, tanto il sogno è acuminato. L’uomo è una vite rampicante su un muro, rosso sangue su bianco di calce, indifferenza e silenzio, la cavalletta scavò un solco e inseminò la terra di congetture, tutto brulica in superficie ma al centro c’è l’osso originario, bianco di calce indifferente e muto. La cavalletta venne a me in legione e mi disse...

Uscii dalla barriera virtuale. Cosa stava succedendo? Intercettai accanto a me altri sguardi smarriti. Molti avevano spento la postazione e barcollavano verso l’uscita, altri erano immobili davanti agli schermi torturandosi le mani nervose. Negli occhi di tutti c’era la traccia di una luce lontana, un lampo d’agnizione che non si spegneva.