gli aneddoti di Vittorio Curtoni

Da piccolo sognava di vivere di fantascienza. Purtroppo il suo sogno si è avverato.

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MEMORIES OF GREEN

Non sappiamo se Delos sia entrato nella storia della fantascienza italiana, ma sicuramente la storia della fantascienza italiana è entrata in Delos. Vittorio Curtoni, già direttore delle mitiche riviste Robot e Aliens - e comunque un bel po' mitico già di suo - ha accettato di portare sulle nostre pagine una collezione di gustosi aneddoti del fandom e dell'editoria italiana. Ah, per sua volontà, il sottotitolo di questa rubrica è "i farneticanti ricordi del vecchio vic". Almeno sapete cosa aspettarvi...

E rieccoci, dopo la pausa doverosamente dedicata all'intervista con quel genio misconosciuto di Vittorcurtonzo Curtoni (il nome è copyright 2001 by Silvio Sosio, e chiunque cerchi di fregarglielo non ha la più pallida idea di ciò che lo attende!), per riprendere a illustrare la fauna del rompicoglionismo editoriale & dintorni. Farò un pot-pourri, e per il momento chiuderò qui; però l'argomento è stimolante, non è detto che non si possa ripigliare in futuro con qualche altra luminosa tipologia.

Per l'intanto...

Lettori del tipo "hmm tu sei nella giuria di quel premio letterario che è stato vinto da un tuo amico, la cosa puzza!"

Detta così, a priori, l'accusa potrebbe anche sembrare fondata: sono in una giuria e premio un mio amico? Corbezzoli! Il tanfo arriva da qui a Pechino. In teoria. In pratica, visto che stiamo parlando della giuria finale del "Premio Urania", cioè quella che decide il solo e unico vincitore dopo che la pre-giuria ha selezionato i finalisti, e visto che mi onoro di farne parte da parecchi anni, farei subito una prima constatazione. Il mondo della fantascienza italiana (perché è di questo che stiamo parlando, giusto?) è piccino picciò. Intendo a livello di autori, traduttori, editor, eccetera. Ci conosciamo un po' tutti. Poi, figuriamoci, uno come me che è sulla breccia dal 1965 con le fanzines... E chi non conosco? Lo sa iddio.

Naturalmente, non conosco gli sconosciuti. Sicché, ad esempio, quando il premio in questione è stato vinto da Luca Masali e Massimo Mongai, che erano all'epoca ignoti a me e a tutto il resto della giuria, e che non sono i soli che non conoscessi prima della vittoria, non ci ho trovato nulla di strano. Come non trovo nulla di strano nel fatto che a ogni edizione la metà circa dei romanzi che arrivano in finale siano firmati da persone che magari frequento da anni. Per fare un caso recente, quel genovesaccio di Claudio Asciuti, che ho incontrato quando era ancora un bambino, portava i calzoncini corti, però era già capace di scrivere un articolo sugli eterei rapporti tra musica rock e fantascienza. Che io gli commissionai e gli pubblicai (e gli feci regolarmente retribuire) su Robot.

Ma nel caso specifico, ladies & gentlemen, di chi stiamo parlando? Di un pincopallino qualsiasi? Direi proprio di no. Trattasi di Valerio Evangelisti, il Valerione nazionale, l'uomo che ha venduto decine di migliaia di copie dei suoi libri, che è stato tradotto in mezza Europa, che oggi lavora per cinema, televisione e radio, eccetera eccetera. Una delle pochissime persone nel nostro paese che vivano solo dei proventi del proprio lavoro letterario senza morire di fame. L'autore che col suo successo ha portato una ventata di nuova vitalità a tutta la fantascienza italiana, e sfido chiunque a dimostrare il contrario. L'uomo, per finire, che mi onoro di avere come amico fraterno da tanti anni, da molto prima che diventasse poeta laureato.

Ebbene, che accadde? La tragica verità è che Valerio ha iniziato la sua fulgida carriera vincendo il premio "Urania" col romanzo Nicolas Eymerich, Inquisitore. E io ero in giuria... Tutto ciò che Valerio ha fatto dopo conta nulla. Il fatto che oltre a me ci fossero altri quattro giurati (Stefano di Marino, Giuseppe Lippi, Oriana Palusci, Marzio Tosello) è insignificante. Nemmeno la constatazione che, negli anni, tanti dei vincitori usciti dal premio fossero sconosciuti ha il minimo peso: io conoscevo Valerio, e siccome statisticamente risulta che in Italia una grossa percentuale di concorsi è truccata, come minimo è lecito avanzare dubbi, se non precise accuse.

Vabbuo'. Non so nemmeno perché spreco tempo a commemorare queste miserie. Forse perché mi picco di essere una persona onesta, e non di rado ho pagato di persona per il fatto di esserlo, e ragazzi se mi girano le balle. Forse perché si può discutere sul fatto se la nostra giuria abbia sempre preso le decisioni migliori, ma ipotizzare che fossero pilotate per un verso o per l'altro mi appare semplicemente ributtante. Forse perché certi rospi ti si ficcano in gola e non li vendono ancora nella confezione "solubile in acqua" e non li puoi mandare giù con un dolce sapore d'arancia!

Editori del tipo "è la gloria che conta, guarda quante belle cose ti lascio fare anche se non ti darò un soldo"

Non ho mai capito perché, ma in Italia esiste la diffusissima convinzione che il lavoro intellettuale sia SOLO un hobby, una passione, e che permettere a qualcuno di esercitarlo in pubblico sia comunque fargli un piacere. Sicché un editore che allestisca un'antologia, una collana libraria, una rivista, si sente tranquillamente autorizzato a chiederti una prestazione d'opera (che può andare da un racconto a una prefazione alla consulenza sui titoli da acquistare per la traduzione) con l'ovvio sottinteso che non verrai pagato, e che anzi dovresti essere grato di tanto onore. E no. Ragioniamo un secondo.

E' vero che tutti cominciano da piccoli, e dal basso, e che quando avevo sedici anni facevo capriole di gioia alla semplice idea di vedere stampato un mio raccontino; però, compagni, ormai sono trent'anni e passa che faccio l'onorata professione, e sono riuscito a pubblicare (quasi) tutto ciò che ho scritto, e di collane ne ho curate a iosa, e in un modo o nell'altro il mio nome compare su centinaia di libri; e guarda un po', ho preso il brutto vizio di desiderare essere pagato per quel che faccio. Non ci vedo nulla di male: voi provate a chiamare un idraulico e a dirgli che non lo pagherete e che anzi dovrebbe esservi riconoscente se gli avete fatto l'onore di scegliere lui. Col cavolo che quello vi aggiusterà il rubinetto. Allora, con gli idraulici non si può, e con gli scrittori/saggisti/consulenti editoriali sì? Qualchedun mi spieghi.

Di cose gratis ne ho sempre fatte e continuo a farne a iosa. Questo stesso pezzo che sto scrivendo ora ne è un esempio: Delos è un'iniziativa no profit, un atto d'amore per la fantascienza messo assieme tutti i mesi da un folto gruppo di volontari, e sono felicissimo di esserne parte e mai mi sognerei di chiedere una lira. Con Internet, poi, le richieste di collaborazioni gratuite hanno preso a fioccare come neve in Alaska, e molti possono testimoniare della mia disponibilità ormai ripetuta non so quante volte. Non mi ritengo avido, non penso di essere un genio che vada retribuito a ogni frase che emette: se una cosa mi interessa, mi piace, sono sempre pronto a buttarmi anima e corpo. Quando sia chiaro, lampante, che se non guadagno un soldo io, nessun altro lo guadagna.

Quello che mi fa incapperare è l'idea che qualcuno parta con un'iniziativa dichiaratamente commerciale, che prepari qualcosa che avrà un prezzo di copertina, che magari gli permetterà di guadagnare un po' di lirozze, e a me (o a chiunque altro) non voglia dare niente. Giusto, i soldi li rischi tu editore, non io autore o curatore o quel che è, e potresti guadagnarci come rimetterci; ma te l'ha ordinato il medico di fare una certa cosa? Te l'ho chiesto io? No. Allora è inutile che vieni a menarmela con le palle della gloria e del prestigio perché tanto non ci casco.

Una sottospecie fondamentale di questa casistica è l'editore che ti dice "sto preparando una cosa nuova, rivoluzionaria. Creerò un grande importante inedito canale per gli autori italiani. Se va bene, vedrai che successone! Però per cominciare naturalmente non ti pago." Naturalmente il mio piffero. E' sempre dai famosi trent'anni e passa che vengo perseguitato da proposte (oscenissime) di questo tenore, e devo ammettere che in gioventù ahimè qualche volta ci sono caduto come una pera cotta, e ho visto editori e/o curatori che non hanno versato il becco di un quattrino né a me né ad altri strombazzare ai quattro venti l'importanza dell'iniziativa. Boh, magari sarà stata importante per loro, ma io al massimo ho visto una copia o due del volume col mio racconto, e tanti saluti. La goduria.

Nessuno pretende di derubare nessuno. L'importante, dal mio punto di vista, è stabilire un principio: mi viene chiesto un lavoro che DEVE essere retribuito. Fissiamo una percentuale, anche molto modesta, di compenso per gli autori su ogni copia venduta, e se ne venderai cento copie vorrà dire che mi offrirai un caffè la prima volta che ci vediamo, ma se ne venderai diecimila mi manderai un assegnetto. Vi pare iniquo? Vi pare vessatorio? Dite voi. Però, anche in tempi recentissimi, una mia proposta in questo senso è stata accolta da uno sdegnato silenzio. Devo avere osato troppo a fronte del mirabolante peso dell'iniziativa alla quale ho rifiutato di collaborare gratis.


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Da piccolo sognava di vivere di fantascienza. Purtroppo il suo sogno si è avverato.

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MEMORIES OF GREEN

Editori/redattori del tipo "ho proprio il libro giusto per te da tradurre però devi cominciarlo domani e farmelo in un mese"

Uno che fa il traduttore, e che di questo mestiere campa, deve organizzare e pianificare il lavoro con buon anticipo. Se finisci una traduzione e poi resti con le mani in mano ad aspettare che arrivi qualcosa d'altro, stai fresco. Ci vuole niente a morire di fame. E se per un mese nessuno mi propone qualcosa? Io che faccio, vivo d'aria? Il risultato è che il sottoscritto ha, mediamente, sempre due o tre libri in lista d'attesa ed è impegnato per diversi mesi. Non mi sembra un concetto difficile da afferrare.

Ma quante volte non mi è capitato di ricevere la fatidica telefonata che dice: "Vittorio, ho la traduzione perfetta per te! Un libro sui Beatles! Un horror bellissimo! La biografia di Ingmar Bergman! Te la mando domani per corriere. Sono appena seicento cartelle e mi servono per la fine del mese prossimo." O frasi equipollenti. Il bello è che poi ci restano anche male, si offendono quando io mi trovo a rispondere, che so: "Veramente sono impegnato per i prossimi cinque mesi." Sacra indignazione: "Ma come, ho tenuto questo libro da parte apposta per te, e tu mi fai questo scherzo? Non si può!" Di solito, il risultato finale con questi signori è che spariscono di circolazione, non li sento più, il che non è bello. E non è divertente. Poi magari, come mi è talora accaduto, li reincontro da qualche parte, e mi guardano tristi e mi dicono: "Eh, mi piacerebbe tanto darti qualche libro da tradurre, ma tu sei sempre impegnato."

E già. Io sono sempre impegnato. Non è che loro hanno il fuoco al culo e mi propongono le cose a rotta di collo. No, ovviamente. Come se poi pubblicare un libro al volo con una traduzione fatta in fretta e furia fosse meglio che aspettare e avere una traduzione cristiana (non necessariamente mia, ma l'esperienza mi dice che in genere chi accetta lavori all'ultimo minuto non è il top). Per fortuna, per quel che mi concerne si tratta di frange marginali che poco incidono sulla mia sopravvivenza: gli editori coi quali ho rapporti continuativi, costruttivi, non si comportano così. Ma succede più spesso di quel che si potrebbe immaginare.

Organizzatori di manifestazioni del tipo "ma come, io ti faccio l'onore di invitarti a parlare e tu ti permetti di rifiutare?"

Il corollario è che magari uno si deve sciroppare cinquecento chilometri di treno o d'automobile, e a volte trovarsi a parlare davanti a una platea composta di quattro gatti che sono lì per fare un piacere a qualcuno ma non gliene frega niente, e se tutto va bene ti offrono il rimborso delle spese vive, ma nemmeno una lira di compenso. E io mi chiedo: se volete me o chiunque altro a parlare significherà che giudicate interessante quel che possiamo avere da dire, giusto? Perché possediamo una competenza, un'esperienza professionale, una credibilità, o l'accidenti che volete voi. Se no perché ci chiamate? E noialtri perché dovremmo affrontare la rottura di scatole di un viaggio di andata e ritorno su tempi brevi, dormire in un letto estraneo (cosa che di rado, almeno per me, è un'esperienza gradevole), parlare a un pubblico potenzialmente indifferente, e perdere un paio di giorni di lavoro GRATIS? Per il piacere di vedere il nostro nome su un manifesto? Sai che emozione.

Non vorrei esagerare. Il sottoscritto ha parlato spessissimo gratis, o quasi, su e giù per l'Italia; ha partecipato a tante manifestazioni dove non solo non è stato compensato, ma ha pagato di tasca sua. Normalissimo: io stesso organizzo a Piacenza le mie micro-con, e tutti gli amici che vengono lo fanno pagando per il piacere di stare in compagnia, e direi che è bellissimo. L'anima del fan si acquisisce in tenera età e non si perde mai. A parte questo, magari c'è un caro amico che mette in piedi qualcosa e tiene alla mia presenza e non ha soldi da sganciare, oppure la manifestazione in sé mi interessa, ha una sua importanza intrinseca, eccetera. Se mi fossi mosso per andare a parlare solo quando mi offrivano un compenso più o meno lauto, avrei concionato in pubblico molto meno di quanto abbia fatto. Ma se un perfetto sconosciuto pretende che io e altri compagnucci della parrocchietta fantascientifica perdiamo il nostro tempo per fare un piacere a lui (o a lei), e poi magari si stizzisce se mi permetto di chiedere quale retribuzione sia prevista, e può addirittura arrivare agli insulti davanti a un cortese rifiuto... Be', andate a farvi friggere. Con l'olio di semi che costa meno di quello d'oliva extravergine, e senza esagerare in quantità.


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