Il primo racconto di Conan è La fenice sulla lama (1932), una storia del Conan adulto e re di Aquilonia, che rielabora un racconto su Kull, pubblicato poi postumo, By This Axe I Rule! Anche nella Fenice si parla di stregoni dalla pelle nera, e di attraversamenti di frontiera, e perfino di contrabbando di liquori. E il successo materiale, per Conan, non rende la sua condizione meno precaria: ero il Liberatore, ora mi sputano addosso, dice.

Negli anni successivi, Howard continua a oscillare nella cronologia di Conan, e nel 1933 lo vediamo diciassettenne in La torre dell’elefante. In questo incontro-scontro fra fantascienza e fantasy, fra spazio pubblico della città, moderna e commerciale (che alimenta le speranze del giovane ladro Conan), e spazio privato e nascosto della torre (che cerca di spegnerlo), troviamo l’alieno col suo sogno di libertà (le ali “avvizzite” dopo il suo naufragio sulla terra, che gli permettevano di viaggiare nello spazio), e lo stregone che lo intrappola usandolo per i suoi scopi di potere. Nel finale, la torre in cui è imprigionato brucia come in La caduta della casa Usher di Poe. A parte qualche autore gotico come Charles Brockden Brown, le ambientazioni del fantastico incarnavano quasi sempre luoghi legati al passato: La torre dell’elefante, una volta per tutte, introduce la città nella fantasy. Nelle tematiche e nei luoghi, Howard radica il fantastico popolare nella contemporaneità.

In Malfattori a palazzo (1934), troviamo quasi una teoria politica nel monologo dell’aristocratico Murilo, che ha stretto amicizia con Conan e replica al malvagio sacerdote Nabonidus che gli rinfaccia la sua corruzione:

“Tu sfrutti tutto un regno per avidità personale, e sotto la maschera dello statista disinteressato, truffi il re, spogli i ricchi, opprimi i poveri, e sacrifichi l’intero futuro della nazione per la tua spietata ambizione. […] Sei un ladro peggiore di me. Questo cimmero è l’uomo più onesto fra noi tre, perché lui ruba e uccide apertamente”. Ma, sconfitto il male, Conan non rimane a raccogliere i frutti della sua nuova possibile posizione di potere: come Huck Finn, come ogni buon eroe western, si mette in viaggio verso nuovi territori: “Sono curioso di vedere con quanta velocità quel cavallo mi può portare in un altro regno. Ci sono molte strade su cui voglio viaggiare prima di incamminarmi su quella che Nabonidus ha percorso stanotte”.
In Conan, il massimo della filosofia di vita è la laicità pragmatica, derivata da una fede solo in apparenza monoteista come quella nel dio Crom, distante e quasi indifferente, espressa in La regina della Costa Nera (1934): “Ho conosciuto molti dei. Chi li nega è cieco come chi se ne fida troppo in profondità. Non cerco nulla al di là della morte. […] Lasciatemi vivere fino in fondo finché vivo […]. Che gli insegnanti, i preti e i filosofi pensino alle questioni della realtà e dell’illusione. Io so questo: se la vita è un’illusione, allora anch’io non sono da
meno, e stando così le cose, per me l’illusione è realtà. Io vivo, brucio di vita, amo, uccido e mi accontento”. Dopodiché Conan, pragmaticamente, procede a dichiarare la sua passione per la piratessa Belit, una fra le numerose figure femminili tutt’altro che decorative. In Ombre al chiaro di luna (1934), lo scontro con la civiltà della principessa Olivia, figlia del Re di Ophir e venduta come schiava dal padre per aver rifiutato un matrimonio combinato: “Noi non vendiamo i nostri figli”. E nel finale, entrambi si lanciano nel liberatorio nomadismo della vita di pirati: “Tu sei un barbaro, e io una reietta, rinnegata dal mio popolo. Siamo entrambi paria, vagabondi della terra”. E nell’Ora del drago, si dice di lui che “Non è parte di una dinastia, ma solo un avventuriero solitario”. Ritroviamo gli attraversamenti di frontiere, gli schiavi, e la lotta contro un villain che vuole “schiavizzare il mondo, […] lavar via il presente e restaurare il passato!”Anche la fantasy può e deve (forse nonostante le stesse premesse del genere) farci sognare, raccontando le sue mirabolanti avventure, prendendo posizione contro ogni nostalgia di ritorno all’indietro, di fuga dalla società e dalla storia: anche questo, forse, lo abbiamo imparato da Robert E. Howard.