Mi pare di ricordare la circostanza di un vincitore del Premio Urania che intervistava il vincitore dell’anno seguente (/magazine/servizi/6543/). È una strana sensazione di deja-vu. Non è che qualcuno ha visto passare due volte un gatto?

Uscendo dallo scherzo e dalla citazione, visto che non è mai la stessa acqua che passa sotto i ponti, come hai affrontato questo secondo premio Urania? Mentre scrivevi il nuovo romanzo ti sentivi lo stesso della prima volta o ti accorgevi che qualcosa era cambiato? La tua scrittura rispondeva alle stesse esigenze o sentivi che c’era qualcosa di diverso che si infilava in mezzo?

Quando mi metto davanti al portatile con un’idea in testa, non mi sto a chiedere se il romanzo o il racconto si adatta a questo o quel premio letterario: a queste cose, ci si pensa dopo, e allora ci si interroga se, come è piaciuto a chi l’ha scritto, così può piacere anche a un ipotetico lettore. Rispetto a Terre accanto, in Stella Cadente c’è forse qualche piccolo espediente letterario, qualche malizia, una maggiore attenzione a caratterizzare personaggi e ambienti: a furia di scrivere, voglia o non voglia, si impara. Ma, ti ripeto, il giudizio finale spetta comunque al lettore, che è il vero signore della situazione.

Qual è la tua idea di pubblico? Quando ti metti al lavoro hai in mente una tua idea di lettore ideale di cui sei cosciente o per te è una cosa del tutto istintiva?

C’era un tizio, il Premier britannico Disraeli, mi pare, il quale soleva dire che, quando voleva leggere un certo libro, se lo scriveva da solo. Ebbene, io la “volevo” quella storia, l’avevo in testa, mi affascinava, già vedevo agire i personaggi, li sentivo parlare, percepivo i suoni e gli odori... scusa, sto divagando, ma è per farti capire che non avevo certo in mente un pubblico particolare. Però… però è una domanda che ogni tanto mi pongo: chi è il mio lettore–tipo? Credo che la tripartizione della Lettera semiseria del Berchet in “ottentotti”, “parigini” e “popolo” sia ancora attuale. Cominciamo dall’ottentotto; è, per intenderci, quello che si vanta di non aver mai letto, in vita sua, un solo libro, escluse forse le barzellette di Totti. Mi dispiace per lui, vorrei tanto fare il buon missionario della lettura, ma è una battaglia quasi disperata. I “parigini” sono invece quelli che hanno letto tutto, ma proprio tutto. Al punto che non riescono più neppure a gustare un nuovo romanzo, a meno che non sia qualcosa di veramente eccezionale. Ed è facile capire perché: misurano lo ”spessore” dei personaggi, cronometrano il ritmo narrativo, pesano le influenze e le analogie, e inevitabilmente concludono “sì, non è male, ma preferisco quel giovane talento emergente pakistano, e poi, diciamolo, Asimov è sempre Asimov”. La categoria dei parigini è particolarmente diffusa fra coloro che praticano in modo assiduo e quasi esclusivo un particolare genere: lettori straordinari, che da soli rialzano la media italiana, ma che pagano il loro amore appassionato per la lettura con il rischio concreto di non riuscire a gustarsi un libro in santa pace. Per non parlare di noi lettori-scrittori, che siamo la razza peggiore. Non so se capita anche a te, ma quando leggi, ti viene istintivo chiederti “come avrei risolto io quella situazione narrativa?” È allora che capisci che devi staccare. Almeno per un po’.

Resta il popolo...

Esatto. La studentessa che di fantascienza ha letto solo i brani in antologia, il manager in vacanza, l’insegnante, il camionista che, nelle pause obbligate in autostrada, si legge Urania... Il fatto di vivere in un centro minore, assieme a non poche difficoltà, mi ha però offerto il vantaggio notevole di conoscere quasi personalmente almeno alcuni dei potenziali lettori, uniformemente spalmati in tutte le categorie sociali. Lettori che ti chiedono soltanto una buona storia, raccontata bene. E sono questi che cerco di accontentare.

Nei limiti del possibile, ci puoi dare una breve anticipazione della trama?

Nei limiti del possibile, se no, lassù qualcuno si arrabbia. Dunque… immagina la scena: anno 1303, quattro uomini a cavallo avanzano nella pianura (Padana) spazzata dal vento gelido. Il Signore di Verona li ha incaricati di accertarsi della natura di un’oscura minaccia che sembra gravare sugli abitanti della grande palude che chiude i confini meridionali del suo dominio. Quello che verranno a scoprire segnerà per sempre la loro esistenza. Ovviamente, la storia non finisce con la loro partenza: in una catena che attraversa le generazioni, la confusa memoria di quell’impresa sopravvive fra i contadini, e la relazione su quella missione segreta, gelosamente custodita per secoli, è riportata alla luce da un avventuriero francese, che, nel 1866, riprende le ricerche da dove quei coraggiosi uomini del medioevo le avevano lasciate. La palude è ormai divenuta terra fertile, e la Scienza è progredita, ma anche l’orgoglioso XIX secolo si dovrà scontrare con una verità capace di portare gli uomini alla follia. E nel 1945, quando ormai la guerra sta per finire, i servizi segreti alleati… e qui mettiamo il punto.

In Terre accanto molti avevano storto il naso sostenendo che si trattava di racconti all’interno di una cornice e non di un vero romanzo. Io ho letto altri due tuoi romanzi che erano romanzi veri e propri, ma da quello che mi dici, qui mi pare di vedere di nuovo tre racconti uniti dallo stesso tema. I fastidi te le vai a cercare con il lanternino?

No, no, e su questo desidero essere chiaro: è un’unica storia, che si snoda nell’arco di sei secoli. Ovviamente, visto che non sono degli Highlander, i personaggi non possono rimanere gli stessi per tutto questo tempo. Facciamo gli sboroni, come dice quel tale: hai presente le tre unità di tempo, di luogo e di azione? Dimentichiamo la prima, che, lo ammetto, non c’è proprio. Il luogo diventa quasi un protagonista del romanzo, perché tutte le vicende ci portano lì, anche se l’ambiente esterno cambia e si trasforma col passare dei secoli. Non solo, ma in quel luogo, immutabile eppure percepito in maniera sempre diversa, c’è un qualcosa, chiamiamolo “l’oggetto della ricerca”, che funge da ulteriore centro di gravità. Caspita, so che parlo complicato, ma prova tu a chiosare un libro senza poter raccontare la trama! Se ho fatto questa scelta, avevo le mie ragioni, e non è sicuramente perché so scrivere solo racconti: come ricordavi, nel mio primo romanzo, di genere storico - avventuroso, A ovest di Thule, sono stato capace di portare avanti 450 pagine focalizzandole tutte, dalla prima all’ultima, sul narratore-protagonista. In Gli eredi del tempo, ho usato l’espediente di intrecciare le vicende di quattro gruppi di personaggi. Io credo - correggimi se sbaglio - che la struttura del romanzo debba seguire l’ispirazione e adattarsi alle esigenze della storia, non viceversa.