La seconda cosa, importante, che mio padre voleva far passare attraverso di me era la

distruzione e la ricostruzione completa del modo di intendere la fantascienza televisiva dell'epoca. Innanzitutto dalle parti di Hollywood c'era la strana tendenza a mettere insieme la fantascienza e il fantasy, due categorie letterarie profondamente diverse che, nel mio caso, mio padre voleva tenere ben separate. Io dovevo essere uno show di science fiction con tutto quello che questo comportava in termini di soggetto e realizzazione. Non sarò certo io a insegnarvi che, al contrario del fantasy, la fantascienza si basa su fatti e speculazioni razionali. E la parola chiave è proprio questa: razionali. Che non significa reali. Voi mi avete visto e io non sono certo il tipo che pensate di incontrare su RAI Educational [ride], con la mia velocità warp, il teletrasporto e un sacco di altre strane diavolerie. Ma l'approccio tecnologico e razionale, filtrato da un alto tasso di verosimiglianza, mi rende, come dire, possibile, o meglio, plausibile. E questa caratteristica innovativa secondo mio padre avrebbe avuto il pregio di permettere ai telespettatori di attuare un processo di identificazione con i miei personaggi, impossibile per un soggetto fantasy o anche ibrido. Eh [sospira], mio padre era un grande, mica come quel come-diavolo-si-chiama? Ah sì, Rick Vattelapesca. Me l'hanno imposto come tutore quando mio padre ci ha lasciato. Ma non penserete mica che io fossi d'accordo! Del resto a me nessuno mi ha interpellato. Poi devo dire che all'inizio le cose sono andate bene, ma me la sentivo che prima o poi... Ma questa è un'altra storia e, siate buoni, non prendetevela, ma non mi va tanto di raccontarvela. È una storia triste. E poi forse la conoscete anche voi. Come dite? La terza cosa? Sì, sì, adesso ci arrivo.

Il paradigma della Horta

Dovete sapere che al tempo della mia nascita, i produttori televisivi avevano uno strano concetto di fantascienza in TV. Mettici dentro un bel mostro e fagli uccidere tutti quanti, fagli distruggere grattacieli e città, fagli rapire una bella ragazza, finché il nostro eroe, il solito bel fusto senza macchia e senza paura, non riesca eliminarlo e salvi così mondo e bella ragazza. Bacio finale e titoli di coda. Insomma, nella fantascienza non si sentiva granché il bisogno di chiedersi "perché". In tutti gli altri generi, fossero essi dei western, dei polizieschi, delle serie con dei medici, o delle tragedie di Shakespeare, autori e produttori si preoccupavano di creare credibilità intorno ai personaggi e alle storie. Questo senso del reale, chissà perché, veniva perduto nel momento in cui gli stessi autori e produttori si avvicinavano alla fantascienza, come se la fantascienza non ne avesse avuto bisogno. Per certi versi torniamo a quello che dicevo prima sulla confusione tra fantascienza e fantasy. Mio padre una volta spiegò questo concetto basandosi proprio su un episodio della mia prima serie. Ricordo ancora le sue parole: "Un classico esempio di fare questo - lui intendeva la fantascienza - nel modo giusto, si ritrova in uno dei nostri episodi più popolari, scritto da Gene Coon e intitolato The devil in the dark (voi lo conoscete con il titolo Il mostro dell'oscurità, è il 25° episodio in ordine di messa in onda della mia prima stagione). La Horta era una creatura sotterranea che attaccava un gruppo di minatori. Alla fine si scopriva che la ragione per cui essa attaccava gli uomini era il suo essere madre. Essa infatti stava proteggendo le sue uova che i minatori stavano inconsapevolmente distruggendo, credendole solo delle strane formazioni minerali. Con questa spiegazione anche il comportamento della Horta diventava improvvisamente comprensibile. Non era solo un mostro. Era qualcuno. E il pubblico poteva mettersi nei panni della Horta... identificarsi... E questo è tutto in un dramma. E se tu puoi identificarti con una Horta, forse potrai imparare a capire anche altri esseri umani di differenti colore, razze o religione..." Mica male per uno come me, no? Infine, l'ultima cosa che mio padre voleva cambiare era la regola secondo cui, chissà perché, le serie di fantascienza non potessero avere personaggi fissi. Erano per lo più serie cosiddette "antologiche", tipo The Twilight Zone, che voi conoscete come Ai confini della realtà, dove i protagonisti cambiavano di volta in volta e non ci si poteva affezionare a questo o a quel personaggio, come in Bonanza. Furono questi i pilastri che lo portarono a costruire me. E furono queste le considerazioni con le quali, insieme, io e lui, andammo all'incontro con i signori della NBC, sperando in una sorte migliore.

Un po' di compromessi

E la sorte fu effettivamente migliore. Mort Werner, allora vicepresidente responsabile della programmazione TV della NBC, dimostrò quel coraggio e quella lungimiranza per cui era conosciuto e stimato e, nel maggio del 1964, per 20.000$ commissionò a mio padre la stesura del soggetto di tre episodi da cui quelli della NBC avrebbero scelto il pilot che mio padre avrebbe dovuto sviluppare per la produzione. Così, finalmente, con un po' di soldi in tasca, mio padre si poté mettere all'opera, ritrovandosi per la prima volta a dover fare delle scelte operative su di me. Tra l'altro, dopo l'incontro infruttuoso con i, lasciatemelo dire, fessi della CBS [ghigna], mio padre si era reso conto che il problema principale per una serie come me erano gli alti costi di produzione, così decise ove possibile di adottare degli espedienti narrativi che gli consentissero di abbassare il budget richiesto. Se non erro fu proprio in quel periodo che conobbi Dorothy Fontana la quale, assunta da mio padre come assistente e segretaria, nel giro di due anni sarebbe stata promossa a sceneggiatrice, e con il nome D.C. Fontana firmò molti dei miei episodi, alcuni tra i più popolari. Lasciatemelo dire, una gran donna, per la galassia! Quasi una madre per me. Dicevamo? Ah sì, le scelte operative...