Giù, nell’Interzona

Dopo la tragica morte di Joan, classificato dalle autorità messicane come “straniero indesiderato”, Burroughs affidò Billy alle cure dei nonni e tornò in Sud America, da cui era rientrato proprio poco prima di uccidere accidentalmente la moglie. Dopo una breve sosta a Panama, debilitato nel fisico e nel morale, giunse a Bogotà dove per caso s’imbatté nel dottor Richard Evans Shultes, ritenuto all’epoca uno dei massimi esperti mondiali di sostanze allucinogene. Gli espose le sue intenzioni e subito dopo passò alla loro attuazione: tra la Colombia e il Perù, Burroughs si dedicò con tutte le sue forze alla ricerca di una droga misteriosa chiamata yage, dai leggendari effetti telepatici, che avrebbe documentato nelle Lettere dello Yage, indirizzate a Ginsberg e pubblicate solo nel 1963.Lo yage, il cui nome scientifico è bannisteria caapi, è una liana la cui corteccia, bollita e miscelata con altre sostanze, veniva usata nei rituali degli indigeni per aprire un contatto con il regno dei morti. I suoi micidiali effetti neurotropi causano la totale alterazione degli stati mentali, e Burroughs se ne servì per scendere di qualche altro gradino la scala verso il suo inferno privato. Dalle esperienze di quegli anni, tuttavia, maturò un’imponente mole di appunti, note, idee allo stato embrionale, che avrebbero fornito spunti per gran parte della sua successiva produzione.Dopo aver sperimentato le ramificazioni della burocrazia fin nella giunga amazzonica, dove si vide negare dalle autorità il riconoscimento del suo visto, Burroughs cambiò aria nel 1953 e dopo una breve parentesi romana finì a Tangeri, una zona internazionale a statuto speciale che sorgeva sulla costa nord-occidentale del Marocco: la materializzazione vivente e pulsante delle sue angosce urbane più profonde, una giungla metropolitana in cui avrebbe trascorso gli anni più frenetici della sua vita e della città stessa.Tra il 1953 e il 1958 raccolse 1000 pagine dattiloscritte nel cosiddetto The Word Hoard, un’autentica scorta letteraria conosciuta anche come the trunk manuscript, un manoscritto-baule. Il Pasto Nudo è solo il primo libro che deriverà da questa impressionante riserva di materiale narrativo. All’epoca della sua stesura, Burroughs trascorreva le sue giornate immerso nella fascinazione di Tangeri: il vuoto sociale, l’assenza quasi assoluta di legami affettivi, la libera circolazione della droga di questo porto franco stretto tra le onde dell’oceano e la desolazione rocciosa del Sahara lo avevano precipitato in uno stato di indolenza e apatia. Emarginato dalla folta comunità di stranieri che animava la vita notturna della città, si sarebbe consumato nei rapporti occasionali con i ragazzi di strada, fonti inesauribili di un effimero appagamento dei sensi, ma di nient’altro. Divenne el hombre invisible.Salvo qualche breve viaggio a Londra o a New York e un mese in Scandinavia, in questa Interzona ci perse quattro anni della sua vita, come inghiottiti nell’oblio da un buco nero. Gli unici luoghi che frequentava erano le strade, le saune, le farmacie e la sua squallida stanza, in cui si rifugiava per spararsi in vena dosi sempre più massicce di morfina, e poi di eroina. Quelle che erano state in Sud America delle esperienze volte a sperimentare l’estensione del dominio della percezione e l’induzione di stati di allucinazione, a Tangeri degenerarono in una forma terribile e cristallina di tossicodipendenza.A Tangeri, Burroughs sfiorò pericolosamente l’orizzonte degli eventi, ma per fortuna se ne accorse in tempo per fare un passo indietro. Forse fu un richiamo istintivo alla sopravvivenza che a un certo punto lo spinse a investire i suoi ultimi contanti in un biglietto aereo per Londra, dove si sottopose alla cura disintossicante dell’apomorfina. Più tardi, Burroughs avrebbe scritto:
“Mi sono risvegliato dalla Malattia a quarantacinque anni, calmo e sano di mente, e in condizioni di salute ragionevolmente buone, non fosse stato per il fegato debilitato e quell’aspetto di carne in prestito comune a chi è sopravvissuto alla Malattia… Quasi nessuno ricorda il delirio nei dettagli. A quanto pare io ho preso appunti dettagliati sia sulla malattia che sul delirio. Non ho un ricordo preciso degli appunti presi e ora pubblicati con il titolo Pasto nudo. Il titolo mi è stato suggerito da Jack Kerouac. Non ho capito cosa volesse dire fino alla mia recente guarigione. Il titolo significa esattamente ciò che le parole esprimono: Pasto nudo – l’istante raggelato in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta.
La Malattia è la tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”.

Rientrato a Tangeri, ritrovò una camera d’albergo colma di spazzatura e fogli senza senso. In suo aiuto giunse una delegazione dall’America: Jack Kerouac lo raggiunse per primo, seguito nel giro di poche settimane da Allen Ginsberg e Peter Orlovsky. Kerouac non solo avrebbe trovato il titolo per il primo lavoro che Burroughs sarebbe riuscito a estrarre dal suo “baule di parole”, ma gli fu da stimolo continuo, spronandolo senza interruzioni. Nel 1957 gli fece anche da dattilografo e mentre lo aiutava ad assemblare il suo capolavoro, comprese che per Burroughs ormai la scrittura era tutto: processo catartico e iter salvifico, attraverso di essa avrebbe voluto espiare le sue colpe ed esorcizzare tutti i demoni del passato, giungendo in fine a guadagnarsi l’agognata redenzione.

Dopo un mese dietro la macchina da scrivere, Kerouac ricevette il cambio da Ginsberg e Orlovsky, che aiutarono Burroughs a mettere a fuoco la struttura narrativa e l’evoluzione della storia. Il problema era che, con il suo svolgimento non-lineare, il libro rifletteva il caos umano che ormai era divenuto un autentico legame tra l’autore e la città, quasi una forma di immedesimazione. Non a caso Burroughs dovette ritirarsi per un mese in Scandinavia, verso la fine del 1958, per portare avanti il suo lavoro chiuso ventiquattr’ore a giorno nella sua camera d’albergo. Al suo ritorno, la città era irrimediabilmente cambiata: i suoi pochi amici avevano preso il largo, nei casi più fortunati, oppure ci avevano rimesso la pelle. Ma il suo vecchio volto era ora fedelmente, spietatamente impresso nel libro.

Tutto ciò che gli restava era la profonda consapevolezza dello stato d’animo del tossicodipendente.

 

 

“La droga produce la formula di base del virus del «male»: l’Algebra del Bisogno. La faccia del «male» è sempre la faccia del bisogno assoluto. Il drogato è qualcuno che ha un bisogno assoluto di droga. Oltre una certa frequenza il bisogno non conosce nessun limite né controllo. […] E la droga è una grande industria. […] Se volete alterare o annientare una piramide di numeri in correlazione seriale dovete alterare o rimuovere il numero alla base. Se vogliamo annientare la piramide della droga dobbiamo partire dalla base: il Tossicodipendente della Strada, e smetterla di partire lancia in resta contro i mulini a vento, cioè contro i pesci grossi, i quali sono tutti immediatamente sostituibili. Il tossicodipendente della strada, che ha bisogno della roba per vivere, è l’unico fattore insostituibile nell’equazione della droga. Quando non ci saranno più tossicodipendenti disposti a comprare la droga non ci sarà più traffico di droga. Finché esisterà il bisogno della droga, ci sarà qualcuno pronto a soddisfarlo”.