Nel panorama editoriale italiano, poco a poco, sta facendo capolino un nuovo autore “collettivo”, è Paolo Agaraff che dopo una piccola proposta: il romanzo breve Le rane di Ko Samui (dove tre vecchi pensionati più o meno dei giorni nostri in un resort tailandese devono vedersela con mostri abissali) edito da Pequod, sbuca fuori con il secondo lavoro, ovvero Il Sangue non è Acqua, sempre per la stessa casa editrice, un romanzo ambientato nei primi anni del novecento che mescola le tematiche degli omicidi in una villa misteriosa in stile Agatha Christie agli incubi orrorifici di Lovecraft.

Sentiamo l'autore “uno e trino” cosa ci racconta in proposito.

Dunque, dicevamo che nel vostro nuovo romanzo i Dieci Piccoli Indiani incontrano gli Abitatori del Profondo. Anche nel primo si trovavano mostri lovecraftiani, quindi un filo conduttore c'è, ma come mai il cambio così deciso di storia?

In realtà è un ritorno alle origini. Il Sangue non è Acqua è nato nel 1993, come trama per uno scenario del gioco di ruolo Il richiamo di Cthulhu. Sin da allora accarezzavamo l'idea di trarne un romanzo, ma il progetto era talmente impegnativo che l'abbiamo rimandato per dieci anni. Nel 2003, dopo la pubblicazione de Le rane di Ko Samui, abbiamo proposto ad Antonio Rizzo della Pequod vari progetti. Alcuni erano nel segno della continuità: prequel o sequel della vicenda tailandese dei tre vecchiacci. Tra i vari progetti, però, c'era anche Il Sangue: l'editore ha apprezzato la complessità della trama e i vari livelli narrativi... così abbiamo cominciato questa nuova avventura.

Riguardo alle differenze tra i due romanzi, possiamo dire che sono molto inferiori rispetto a quanto non appaiano ad una prima lettura; in realtà ci sono molti elementi che li accomunano, e non solo l'ispirazione alle atmosfere lovecraftiane, contaminate e rivisitate. C'è il tema della diversità, la capacità di accettarla in se stessi e negli altri, e poi il gusto del grottesco e dell'avventura. Questi aspetti sono elementi di continuità tra i due romanzi.

Allora i tre vecchiacci del precedente romanzo breve, non sono personaggi occasionali ma destinati a farsi rivedere?

I tre vecchi cinici, così distanti dalle figure tradizionali dei protagonisti dell’horror, sono personaggi troppo ghiotti per abbandonarli in Tailandia. Tre protagonisti che guardano il mondo con l’occhio disincantato di chi ha visto tutto, di chi pensa che gli orrori quotidiani non siano meno assurdi dei mucillaginosi esseri lovecraftiani.

Inizialmente prevedevamo una trilogia vacanziera: dalla Tailandia alle montagne austriache, per finire nelle campagne del mantovano. Poi si è aggiunta anche l’ipotesi di un prequel, che però ha suscitato vivaci discussioni schizoidi nella multipla natura agaraffiana. E per questo motivo è stato parzialmente subappaltato.

La vostra non è certo la prima esperienza di scrittura a più mani, perché pensate che si stiano moltiplicando queste esperienze di posse di scrittori?

Crediamo che la principale barriera alla scrittura a più mani sia sempre stata la scarsità di strumenti per affrontare il procedimento da un punto di vista pratico. E’ già difficile l’impresa di mettere in sintonia su una stessa storia i cervelli di più persone, coordinare poi un’attività di questo genere senza internet, posta elettronica e sistemi evoluti di videoscrittura diventa praticamente impossibile. L’ampia diffusione di questi strumenti informatici, probabilmente, è stato il catalizzatore della nascita di buona parte dei nuovi gruppi di scrittura.

Diciamo che fate del brainstorming il punto centrale della vostra esperienza, ma vi sentite solo via internet oppure?

Internet non basta. I momenti mitopoietico-etilici degli incontri fisici sono essenziali, sia per definire le prime bozze dei progetti, sia per verificarne lo stato di avanzamento. Le idee migliori nascono sempre quando siamo riuniti tutti insieme, quando si chiacchiera, davanti ad un buon bicchiere di grappa o di whiskey. L’unico problema è scrivere subito tutto quel che passa per la mente… altrimenti questi pensieri vanno perduti come lacrime di distillato nella pioggia (etilica n.d.r.).

Che tipo di tecnica adottate nello specifico della stesura? Ognuno gestisce un personaggio, oppure?

Il procedimento è abbastanza anarchico, anche se segue una procedura. Innanzi tutto concordiamo un canovaccio ragionevolmente stabile, capitolo per capitolo, e cerchiamo di definire nei dettagli l'ambientazione, rovistando in librerie polverose e navigando su internet. Per quanto riguarda i personaggi, protagonisti e comprimari, prepariamo schede descrittive simili a quelle che usano i giocatori di ruolo. Dettagliamo tutto, per ottenere coerenza e introdurre sottotrame che spingano i personaggi ad agire, piuttosto che a subire passivamente la propria sorte, trascinati dagli eventi.

Finalmente, dopo questa mole di lavoro, cominciamo a scrivere sul serio.

Per non dilatare troppo i tempi, ci diamo delle scadenze abbastanza stringenti e ci passiamo, a turno, il file con il testo. Ognuno di noi contribuisce come e quando può; qualche volta si scrive di più, altre di meno. Qualche volta ci si limita a limare quanto già scritto, altre volte si fa procedere la narrazione.

In molti casi trama e personaggi cambiano sensibilmente rispetto al loro profilo iniziale. Un personaggio acquisisce carattere, una sottotrama acquista importanza, mentre un’altra tende a scomparire. Poco per volta, i protagonisti cominciano a prendere vita propria. Alcuni comprimari vanno alla ribalta, alcune primedonne finiscono nell’oblio.

In mezzo a questo marasma ci si può chiedere come facciamo a mantenere uno stile di scrittura abbastanza uniforme. Considerata l'estrema diversità delle nostre personalità, il fatto rappresenta un mistero anche per noi. Almeno così era, prima di accorgerci che, a causa delle frequenti riletture e reiterate modifiche, tendiamo asintoticamente verso una forma stilistica che risulti accettabile a tutti e tre. Da un passaggio all’altro, si aggiungono e tolgono avverbi, metafore e gerundi, cercando di raggiungere la convergenza. Ogni iterazione del testo è come una mano di vernice; a forza di stratificare, riusciamo a ottenere un colore uniforme.

Tra l’altro, stiamo sperimentando lo stesso metodo anche con un gruppo allargato, e i risultati sono molto interessanti.

Insomma il gruppo va crescendo, più o meno come succede ai giocatori di ruolo, o sbaglio?

Il paragone è abbastanza azzeccato. Alcuni anni fa è nata “carboneria”, una mailing list che raccoglieva vari autori, interessati al fantastico, al grottesco, alla narrativa “di confine”. Un melange tra noir, horror, fantasy e fantascienza. Un punto d’incontro in cui commentare e criticare i rispettivi racconti e romanzi, e ragionare su progetti comuni. Una specie di “Castello dei cavalieri cosmonauti mannari”, un non-luogo in cui scambiare idee. ”Carboneria” ha finito per generare un’antologia che sta ancora cercando un editore, oltre ad un nuovo autore multiplo alla sua prima prova: Fra’ Pelagio D’Afro, che ha preso in carico proprio il progetto del prequel de Le Rane di Ko Samui. Tra i carbonari più noti, possiamo ricordare Stefano Marcelli e Andrea Angiolino.

Dai vostri riferimenti viene chiaramente fuori che siete giocatori di ruolo, a quanto pare diventa sempre più evidente che questo tipo di gioco prima o poi si rende colpevole di aspirazioni letterarie.

Un libro e una sessione di gioco di ruolo possono essere considerate forme differenti della stessa storia, quello che cambia è solo il modo di raccontarla. Nel caso del libro, è il narratore che si fa al contempo regista e interprete: prevale la forma scritta, un monologo che guida il lettore attraverso le vicende narrate. Nel caso del gioco, invece, sono i giocatori a costruire sulla base del canovaccio la propria storia, tutti insieme. Un giocoruolista e uno scrittore hanno, in fondo, un’analoga genesi: sono entrambi dei cantastorie.

Noi ci divertiamo a vestire entrambi i panni: sviluppiamo libri e racconti a partire dagli scenari per giochi di ruolo, e giochi dai racconti e dai romanzi. Entrambi i percorsi ci consentono di scoprire qualcosa di nuovo sulla storia e sui personaggi che la animano.

Gioco e libro: solo modi diversi di raccontare.

Bene, per concludere, visto che siamo sul Corriere della Fantascienza, una domanda che poi sono due: leggete fantascienza? E qual'è il libro che preferite in questo genere? Sarebbe gradita una risposta trinaria.

Certo che leggiamo fantascienza, altrimenti non saremmo qui, adesso, e non avremmo scritto un romanzo come Il Sangue non è Acqua. Però scegliere il romanzo preferito di fantascienza non è affatto banale… nelle tre librerie di Agaraff riposano immani quantità di edizioni Nord, Mondadori, Libra, Fanucci e minutaglie varie. Qualche nome? Heinlein, Asimov, Vance, Herbert, gli autori "new wave" e della fantascienza sociologica: Vonnegut, Farmer, Scheckley, Brown, Kornbluth e Pohl, scrittori che hanno aperto un mondo nuovo, fatto di dubbi ed ipotesi affascinanti. E poi Orwell, le ombre di Ambra di Zelazny, le realtà "squagliate" e pirandelliane di Philip Dick, il sincretismo di horror, fantascienza e fantasy creato da Valerio Evangelisti, il fantasy geniale di George Martin, l’horror di King e Poe.

Dovendo scegliere citare solo tre opere, una per ciascuno di noi, potremmo dire: Un eroe galattico di Harry Harrison per il giacobino del gruppo, Memorie di un viaggiatore spaziale di Stanislaw Lem per l’introverso, e il ciclo del Ratto di Acciaio Inossidabile per il Jim Digriz della terna agaraffiana.

Beh, come non pensare al Superuomo di Theodore Sturgeon, formato da tanti individui diversamente deboli se separati ma perfettamente in sincronia quando presi nell'insieme?

Forse il segreto di tutti i nuovi autori collettivi era già in quel romanzo.