Dio la benedica, Signor Vonnegut!

L’opera di Vonnegut nasce da un trauma. A Dresda, prigioniero del Reich, il giovane esploratore Kurt Vonnegut, Jr. volontario nelle file alleate chiuso in un mattatoio, sentì le sirene strappare il cielo della città, vide arrivare lo stormo dei bombardieri americani e scampò per miracolo alle loro bombe. La stessa fortuna non toccò alle 135.000 vittime che sotto le macerie di Dresda trovarono la morte. Il senso dell’apocalisse deve essersi mescolato a fondo con il miracolo della morte scampata, originando il singolare punto di vista di Vonnegut sugli eventi della storia e gli accidenti della vita. Un punto di vista che è allo stesso tempo lucido e, sembrerebbe, non del tutto popolare. La sua prospettiva conduce inesorabilmente a un senso tragicomico del vivere, per cui sarebbe corretto parlare di vero e proprio “non-senso”. Il suo pensiero affonda nel nichilismo, ma non si priva di uno slancio propositivo – verrebbe da dire costruttivo – che ha fatto giustamente parlare, in merito al suo punto di vista, di “nichilismo positivo”.La constatazione da cui muove è semplice. Non c’è un senso in quello che l’uomo compie quotidianamente, da quando è riuscito ad affermarsi come specie dominante sul pianeta. Non c’è un senso nel rincorrere la parvenza o perfino l’ombra di un significato. Non c’è un senso nelle sue azioni e nell’affannarsi in questa ricerca, per quanto l’uomo di ostini a inseguirlo. Questa assenza di significato finisce per disseminare sulla sua strada tutta una serie di più o meno terribili incidenti di percorso, in una escalation di crudeltà che porta a strumenti di distruzione sempre più efficaci, spietati e letali. Non c’è un senso, in questo triste vivere. E forse non ci resta altro da fare che seguire l’esempio di Billy Pilgrim in Mattatoio n. 5, che “ogni tanto, senza alcuna ragione apparente, si metteva a piangere”.I temi ricorrenti che possono essere individuati nella variegata produzione di Vonnegut, a ben guardare, nascono tutti da questa tragica consapevolezza. Diversamente dal luogo comune invalso da qualche decennio (più o meno, dalla scoperta delle vastissime applicazioni dell’energia racchiusa nell’atomo), per Vonnegut non esiste una linea di confine morale tra la scienza e la tecnologia, né alcuna distinzione tra la ricerca e le sue applicazioni. La scienza viene vista con sospetto, ma questa diffidenza non viene, come imprudentemente si potrebbe pensare, da posizioni chiuse e retrive, bensì dalla constatazione storica degli errori dell’umanità. Nelle mani degli uomini, la scienza non ha prodotto altro che danni immani, disastri irreversibili e distruzione. Sono questi i frutti del progresso voluto dagli uomini, perché il motore della storia è alimentato dalla follia umana. Militari senza scrupoli, politici opportunisti, criminali di guerra, scienziati fuori dal mondo e miliardari annoiati e arroganti emergono nitidamente dallo spaccato di umanità ritratto nei libri di Vonnegut. E il resto del genere umano, incarnato emblematicamente dalla middle class americana, con il suo bagaglio di pregiudizi e idiosincrasie, non fa una bella figura. La critica di Vonnegut, quindi, più che alla scienza e al progresso in sé si volge alla limitatezza di vedute dell’uomo, alla sua superficialità, alla futilità ovvia e banale dei suoi sogni e bisogni. Finché l’uomo indugerà in questa condizione, sembra suggerirci l’autore, tutto quello che potrà venire dalle sue azioni sarà solo una versione sofisticata e magari astratta di uno strumento di tortura medievale, di cui conserverà l’efficacia e la funzione. Anzi, leggendo Vonnegut verrebbe quasi da chiedersi: possibile che la fine del mondo non si sia ancora compiuta?La sua critica, è bene rilevarlo, non piove dal cielo come un giudizio superiore. Vonnegut stesso si aggira tra i suoi libri, interagendo con i suoi personaggi, contribuendo con la sua inerzia allo stato delle cose: la sua è quindi una critica interna, soggettiva e personale, ai costumi invalsi con l’affermazione della legge del mercato e del capitale, che predica il profitto a tutti i costi, che sottrae forze e risorse ad altre attività umane maggiormente degne di considerazione del puro e semplice “macinare denaro” e che, così facendo, mette l’uomo contro altri uomini. L’alienazione dei tempi moderni, che porta con sé indifferenza, rassegnazione e pacata accettazione dei mali del mondo, è questo il suo bersaglio. E il paradosso e l’artificio sono le armi che sceglie per sferrare la sua offensiva morale.Niente di strano, quindi, che Vonnegut prenda le mosse proprio dal genere che meglio di altri può fornirgli gli strumenti per la sua satira sociale: la fantascienza. È nel genere che fa il suo esordio. È nel genere che continua a muoversi affinando le sue armi, la sua arguzia folgorante, il suo spirito irriverente. È al genere che fa riferimento anche quando la deriva postmoderna lo porta a muoversi con agilità su un terreno che si pone di fatto al di fuori (o, magari, proprio nel punto d’incontro) di qualsiasi genere.Nel romanzo di satira di costume Dio la benedica, Signor Rosewater!, per esempio, Vonnegut dedica un lungo brano agli scrittori di fantascienza, ai quali esprime tutta la sua stima e il suo affetto, con gli abituali modi dirompenti e tutt’altro che convenzionali: