Millgate, quella mattina, mi era aliena. Mentre ne percorrevo seminudo le strade, non la riconoscevo. Gli edifici sembravano funghi, un sottobosco putrido e fetido di qualche macchia alpina schizoide. Il bar di Mary si era trasformato in un termitaio gigantesco, una colonna di mota masticata, rigurgitata e trasudante secrezioni fetide (e putride, of course). Dalle cavee del nido d'insetti si affacciavano orridi artropodi, corpi chitinosi e volti dei miei concittadini. Riconobbi il giornalaio, il farmacista, il cassiere della Banca Nazionale. Be', quest'ultimo non era molto cambiato: le chele le aveva sempre avute. Mi parve anche di vedere Ceccher, che alzava un cartello recitante "Dio c'era" e trascinava con sé, su una lettiga, il corpaccione immobile del Padreterno, così come gliel'avevano consegnato i suoi amici del Frolix8, un complesso residenziale accanto a Milano2, pieno di gente sballata. Forse era solo la mia condizione ipnagogica a darmi quelle visioni: in quelle circostanze, la facoltà dell'attenzione diminuisce, e così ha sopravvento la penombra; il mondo è visto soltanto nell'aspetto simbolico, archetipico, ed è totalmente confuso a causa delle intrusioni di nostro materiale inconscio.

Avevo bisogno di una canna.

Anche la nebbia che era calata dalle colline non era affatto normale. Aveva il colore e la consistenza di un cappuccino con la schiuma: c'era persino polvere di cacao spruzzata sopra. Era tutto molto simbolico, metaforico e post-freudiano.

Spensi il motorino a pochi metri dal fronte del nebbione-cappuccio, misi il cavalletto e scesi per controllare.

Fu questo a salvarmi. La fucilata colpì il serbatoio, e i pallettoni fecero a pezzi la lamiera sottile come l'equilibrio mentale di un paranoico. Il mio povero motorino esplose in un'autentica catarsi emotiva. Da transfer psicanalitico.

Battei le palpebre. I ricordi erano finiti.

Il presente incombeva, e aveva il volto lombrosiano di Ramon. Occhi bovini, capelli pettinati col compact disc, mascella che denunciava lunghe sedute di panca alla faccia, un fucile priapico, un chiodo da invidia del pene e un ghigno da maniaco depressivo allo stadio terminale.

- Sei tu che ti sei scopato la mia chica? - muggì - Sono qui per matarti.

- Prego? - feci io.

- Non negare, cabron. Lo so che sei tu.

- Sai che sono io? - ripetei con aria ebete - Io non lo so chi sono io. E tu? Sei proprio sicuro di sapere chi sei tu?

- Mi prendi per il culo, cabron?

- Oh no. - lo assicurai - E' che sono malato. Molto malato. Sono così malato che credo che tutti gli altri siano ammalati e io sia l'unico sano in circolazione. Ho un deterioramento dell'affettività quale secondo Jung si riscontra nella schizofrenia patologica, o nelle paranoie provocate dalle disfunzioni del diencefalo, che d'altra parte è l'antico tronco cerebrale, e secondo Lorenz regola la percezione della realtà per come la conosciamo. Non sei d'accordo?

- Non ci ho capito un cazzo. - ringhiò Ramon.

- Te lo spiego meglio. - continuai, spostandomi lentamente dalla traiettoria del fucile - Tu credi che questa sia la realtà reale, ma in realtà la realtà reale è una realtà realmente irreale e realisticamente irrealizzabile. Realizzi?

- Ora ti sparo nelle palle.

- No, non puoi farlo. - scossi la testa - Non puoi, perché nella realtà reale l'Asse ha vinto la guerra. E ha vinto perché Roosevelt è stato assassinato nel '36, il New Deal non si è mai realizzato, il fronte russo è crollato e i giapponesi hanno mandato Mazinga Zeta e Jeeg Robot d'Acciaio a radere al suolo la costa occidentale.

Ramon caricò il colpo in canna e prese con calma la mira.

- E va bene... - dissi in tono rassegnato - Spara pure. Tanto, ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare.

- E sarebbero? - chiese lui, inarcando un roccioso sopracciglio con aria di sfida.

- Navi da combattimento in fiamme davanti ai bastioni di Orione. - azzardai.

- Tutto qui? - sibilò Ramon, sprezzante - Vista una corrida, viste tutte...

- Raggi beta balenare nel buio alle porte di Tannhauser. - tentai ancora.

- Figurati! - mi schernì lui - Hai mai visto come balenano i bengala degli ultrà dietro la porta del Real Madrid?

- E va bene, l'hai voluto tu. - ringhiai - Ho visto i numeri di Pris Coscialunga al bordello di Alpha Centauri. Tutti.

Ramon sbarrò gli occhi. - I numeri di chi?

- Pris, la più maiala Nexus-omeo-puttana che Deckard abbia lanciato sul mercato da quando si è ritirato da cacciatore d'androidi. Una bomba di sesso perverso, altro che Lorena.

Lui restò a bocca aperta. - Dici sul serio?

- Altroché! I numeri con i pitoni e gli armadilli non sono male, ma dovresti vedere quello che riesce a fare con i commercialisti di Voghera.

Ramon si mise a sbavare. Il fucile gli cadde di mano. - Non avresti... - balbettò -... per caso... qualche videocassetta?

- Ho di meglio. - lo stesi - Un abbonamento a vita per la "Blade Runner House"... Mi spetta in quanto commercialista ufficiale dell'attività. Tutti i soci di Deckard ne hanno uno.

- Uh! - fece lui, in tono da dislessico post-freudiano - E come si fa a diventare soci di Deckard?

Lo presi sottobraccio, gli infilai una canna in bocca e gliela accesi: quando si è fatti si tratta molto meglio.

- Ad esempio... - azzardai - potresti proporgli spettacoli di flamenco per intrattenere i clienti in attesa. Pensaci: una nuova attrazione della "Blade Runner House", tu metti le ragazze e lui il locale. Fifty-fifty.

- Uh, uh. - fece lui, facendomi sospettare una disfunzione patologica e congenita all'epiglottide. - Dovremmo discuterne un po' meglio... Come ti chiami?

- Questa è una buona domanda. - approvai - Merita un'altra canna.

...

Il giorno della mia partenza per la Spagna, e poi verso Alpha Centauri, in veste di commercialista al seguito di Ramon, Lorena e le altre, passai a salutare mio nonno Phil.

Non era veramente mio nonno, se non in senso edipico e pre-junghiano. Viveva isolato da tutti, in un castellaccio fetido e putrido abbarbicato alla cima di un colle, non riceveva nessuno, e prendeva a calci nel culo il postino e l'assistente sociale quando venivano a disturbarlo. Per questo, veniva chiamato dagli abitanti di Millgate (o Springfield, non ha importanza) "lo stronzone nel castello alto".

Di lui dicevano che era uno scrittore, ma non aveva mai avuto grande successo. Secondo gli esagrammi I-Ching (nella conformazione dell'ornitorinco arrapato), dopo la sua morte, su lui si sarebbero scritte tesi di laurea, si sarebbero organizzati convegni, si sarebbero tenute tavole rotonde e presentazioni; ovunque bastardi genetici che (con nonno Phil vivo) avrebbero preferito una mattonata sui coglioni alla prospettiva di comprarsi un suo libro, si sarebbero sgolati nel dichiararsi suoi inesausti fan.

Nonno Phil credeva a queste profezie: sapeva che erano plausibili, giacché conosceva bene i suoi polli. In senso biblico-freudiano. Così restava chiuso nel castellaccio, dormiva in una bara che si era fatto appositamente rivestire di antidepressivi, e passava il tempo a sperimentare nuove miscele di fumi e acidi (aveva inventato il Chew-Z o l'Anitra-WC? Non ricordo...).

Non era ancora sufficientemente pazzo, e questo lo angustiava. Non potevo dargli torto.

Però il suo consiglio mi era sempre caro, e avevo voglia di dirgli che partivo. Mi piantai a gambe larghe, nel tramonto soffuso di brume junghiane, fermo contro la sagoma oscura dell'alto castello che dominava la valle, e gridai.

- Nonno! Nonno Phil!

Sentii una finestra aprirsi, e un soffio di aria fetida e putrida, dall'interno del castellaccio, m'investì. Era lui.

- Nonno! Io parto. Vado in Spagna.

Lui disse solo tre parole. Un epitaffio. Ma, in esse, c'era tutta la sua essenza, la coscienza solida e potente di titano capace di discernere con la mente tra le realtà reali e immaginarie, e di sancirne con il solo verbo le esistenze.

- Passa 'sta canna!