Lui vide il Mistero grande, lui seppe l'Ignoto

Lui recuperò la conoscenza di tutti i tempi di fronte all'Inondazione.

Lui viaggiò oltre il distante, lui viaggiò oltre esaurimento,

E poi fece naru, scolpì a sassate le Tavolette

Testa maledetta! Stupida testa senza memoria, che gioca con il mio cervello utilizzando frammenti incompleti. Dovrei sbatterla contro la parete, la mia testa, fino a ridurla a un unico grumo sanguinolento di carne e ossa. E' quello che dovrei fare. E' quello che merita per la sua irritante ostinazione a non serbare memoria. Una testa nettata dai ricordi non serve più, non serve a niente.

Raschiare di ferraglia. Il catenaccio che scorre nelle guide arrugginite. Adesso entra. Adesso entra, e io - un dio qualunque mi perdoni! - non posso ucciderlo. Non oggi, in ogni caso, perché, finalmente me ne rendo conto, il mio piano non regge. In realtà, nessun piano di fuga può reggere, se prima la mia stupidissima testa non recupera schegge indispensabili di memoria. Nessun piano. Non quello di oggi, non quello di ieri, non quello di tutti i giorni passati... Giorni? Mesi? Oppure anni?

La porta si apre, cigolando sui cardini robusti, e la sagoma alta e sottile del carceriere ne occupa la luce. Si avvicina con movenze legnose al giaciglio di assi sul quale sono seduto.

- Altri pennelli - mi dice con quel suo tono irritante. - Di varie misure. E colori naturali e uova... e fiaccole imbevute per farti luce. - Appoggia ai piedi del pagliericcio una piccola cesta di giunchi intrecciati, e mentre si piega sorregge, con la mano libera, il cappello floscio di stoffa grezza; gli occhietti furbi, caliginosi, non smettono di controllare mie eventuali mosse. - Le uova sono per il collante: non mangiarle, sono vecchie - aggiunge. Risollevandosi, estrae dalla cesta una ciotola fonda con il cibo e me la porge. - Mangia questa, invece, è nutriente.

Ci sono pezzetti di carne nella scodella di coccio, carne di un qualche animale, immersi in un intingolo scuro e denso. La portata non ha un buon odore. Mi giunge la reminiscenza olfattiva di altre fragranze...

Qualcuno serve cibo agli dei Anu e Enlil

Candisca, carne, e acqua versa da pelli.

Immergo la ciotola in un fascio di luce che s'infiltra nella cella da una delle feritoie alte, piccole aperture appena sufficienti ad assicurare il ricambio d'aria. No, il cibo non ha un buon odore, e a guardarlo illuminato appare, se possibile, ancora più ributtante. E tuttavia penso che mi converrà mangiarlo per recuperare forze preziose. Mi converrà mangiarlo. Più tardi.

Il carceriere arretra di due passi, evitando di darmi le spalle, e muove gli occhietti d'intorno, a scatti nervosi. Muove gli occhietti e poi comincia a muovere anche la testa. A scatti, appunto, come usano i polli razzolando nell'aia. E continua a scandagliare la parete circolare fin quando non la trova: la parte di affresco che ho realizzato durante la notte.

- E' questo? - chiede. E' una domanda oziosa. Si capisce dalla pittura ancora lucida d'umidità. - Cos'è? Una cascata? Ancora acqua. E rospi, naturalmente.

- Rane. Sono rane - puntualizzo, senza distogliere lo sguardo dalla scodella di terracotta. E io le rane non le sopporto, penso.

Non sembra particolarmente interessato alla precisazione, ha ripreso a scrutare le pareti della cella con le movenze del pollo di prato. Sta paragonando la porzione nuova con gli affreschi già asciutti che riempiono, ad altezza d'uomo, più di due terzi delle mura, e mastica dietro i denti serrati incomprensibili anatemi.