Strano destino quello di Abraham Merritt (o meglio, di A. Merritt, soltanto

con l'iniziale, come l'autore firmava tutte le sue opere). Non è meno

popolare di Edgar Rice Burroughs negli anni Venti e Trenta, e nel 1949-50 è

il primo nome del fantastico pulp a diventare "marchio" di una rivista, A.

Merritt Fantasy Magazine, ma in seguito ne è eclissato nelle storie della

letteratura di massa grazie alla perdurante fama extraletteraria del

personaggio di Tarzan.

Solitamente considerato precursore della fantasy più che della fantascienza, contrariamente a Burroughs, molte delle sue opere migliori sono "al confine", contaminazioni fra i generi, oscillando fra il richiamo a biologie e antropologie aliene e quello a demonologie e cosmogonie arcane. E spesso, l'appello ultimo all'occulto soprannaturale è la cornice entro cui gli esseri umani in visita alla lost race, alla razza perduta, incontrano potenze misteriose e ingaggiano battaglie e conflitti in grandissima parte terreni. Sempre al centro rimane il mistero, davanti al quale nessuna spiegazione riesce a fornire sicurezze sufficienti. Sul modello narrativo creato da Haggard, Merritt innesta il linguaggio dello scientific romance, in una visione del mondo che ha grandi punti di contatto con quella delle cosmologie di Lovecraft.

Soprattutto, al di là di filosofie, spiegazioni del mondo e giustificazioni narrative, in Merritt c'è il puro piacere della descrizione, dell'invenzione, della narrazione: creature di luce e rettili pensanti, draghi alati e lumache tentacolate fluttuanti in aria, dinosauri e morti viventi, shapeshifters privi di corpo e distopie meccanizzate, entità collettive fatte di metallo e civiltà sotterranee, satanici scienziati e principesse semidivine coi loro mostruosi schiavi, inquietanti ibridi fra umani e batraci, aracnidi e serpenti. Se molti suoi contemporanei sono ancora fermi alle descrizioni statiche della traduzione utopica, e se l'avventura spaziale di Burroughs rimane legata a trame di cappa e spada nonostante l'ambientazione aliena, in Merritt per la prima volta il tema in primo piano è l'incontro e l'interazione con l'alienità. Quelle scene di stupefazione e allucinazione, quelle visioni piene di colori (un po' romantiche, un po' decadenti, quasi sempre eccessive), che invitano il lettore al confronto con un'alterità affascinante e mostruosa, diventano le vere protagoniste. Infinita diversità in infinite combinazioni: il motto di Star Trek vale senz'altro anche per Merritt.

Come il resto della cultura statunitense, anche Merritt fa i conti con un'America in cui la Frontiera ha perso la sua consistenza storica; il continente è stato colonizzato, la Prima Guerra Mondiale ha messo in crisi le illusioni di beato isolamento, e la Depressione è alle porte. All'esterno e all'interno, si sono esauriti gli spazi vuoti dove si può dispiegare quel principio di libertà con cui l'America vuole identificarsi. E allora la Frontiera, scomparsa dalla storia, può dispiegare la sua forza ideologica sotto forma di mito culturale, nella narrativa realistica come in quella fantastica: Hemingway la riscopre in Europa e in Africa trovandovi nuova vitalità; Burroughs su Marte e Venere, o nell'Africa primitiva di Tarzan, trovandovi conforto per l'eroe; Henry James e H. P. Lovecraft nelle profondità della psiche trovandovi incubi e trappole (sociali o metafisiche); il Fitzgerald del Grande Gatsby ne celebra la capacità di sopravvivere al di là delle delusioni della realtà, trovandovi un "sogno" nazionale ancora possibile per gli americani.