Avevano continuato a provare, perché non c'era altro da fare, mentre il sospetto si faceva largo nelle loro menti come un rigagnolo corrosivo. Erano soldati di prima linea. Avevano sempre pensato alla morte come alla raffica rauca di un laser. Al vortice di una bomba implosiva. Una cosa rapida e improvvisa. Pietosa, in fondo. Nessun manuale aveva insegnato loro come affrontare la "morte lunga" di un'eterna prigionia. L'atavica paura del labirinto si era insinuata nel gruppo come un verme invisibile. Li aveva scavati dentro. Giorno dopo giorno...

Erano cominciate le liti. Le incomprensioni. La reciproca insofferenza. Era sparita prima la disciplina. Poi la dignità personale. Infine, tutto il resto. Cerezo aveva abbandonato la sua slitta anti-g dichiarando rabbiosamente che non sopportava più doversi trascinare dietro quel peso inutile. Poi una notte si era messo a frugare in quella di Apollo, cercando chissà cosa. Apollo lo aveva sorpreso. Era scoppiata una lite furibonda e Cerezo era rimasto a terra, ucciso da una coltellata.

Obermayer era morto due mesi dopo, schiacciato da una roccia volante, in una cupola desertica dove i venti soffiavano a trecento chilometri l'ora. I delicati sensori della sua tuta da combattimento funzionavano male. Obermayer aveva smesso da tempo di occuparsi della necessaria manutenzione. Nell'accecante tempesta di polvere che spazzava la cupola, il masso di granito gli era piombato addosso senza che lui potesse accorgersene. Era stato quasi un suicidio.

Poi era toccato a Miller, corroso da un'infezione che i farmaci in dotazione non erano riusciti a fermare. Lo avevano sentito gridare e piangere per una settimana, mentre un morbo sconosciuto lo divorava dentro come una lebbra, aprendogli squarci nella carne. La sua morte era stata il segnale della fine. L'ultimo, tenue filo di solidarietà che aveva tenuto uniti i superstiti fino a quel momento si era disintegrato all'improvviso. Avevano litigato furiosamente a proposito della direzione da prendere. Si erano divisi. Tre uomini. Tre strade diverse. La stessa, disperata impotenza che gridava nei loro volti scavati. Nello sguardo caparbio fisso all'orizzonte. Nei passi pesanti.

Ary e Julian si erano ritrovati un anno dopo. Un destino capriccioso sembrava aver deciso di riunirli per l'atto finale. Apollo Starakis era morto. Ary Blomqvist ne aveva intravisto i pezzi smembrati ai piedi in un termitaio, alcuni mesi prima. La testa, staccata dal corpo, si era rivelata ancora abbastanza integra da permettergli di riconoscerlo. Dell'intera pattuglia erano rimasti solo loro due. Ma anche Julian ne aveva per poco. Il vecchio Assaltatore, rotto alle prove più dure, era stato piegato come una sbarra di ferro caldo. Smagrito e balbettante, si trascinava in uno stato di prostrazione irreversibile. Aveva perso quasi tutto l'equipaggiamento. Ragionava a fatica, cadendo spesso in larghi vuoti di memoria. Era preso da improvvisi scatti di demenza, durante i quali gridava frasi sconnesse a proposito di certi Brulicanti Neri che lo stavano inseguendo per strappargli l'anima. Ogni tanto scoppiava in lacrime, invocando un Dio a cui non aveva mai creduto.

Ary lo aveva preso con sé, pur sapendo che non sarebbe servito a nulla. Era stato un facile profeta. Il destino aveva aspettato Julian a pochi passi da un Condotto del Cibo, sotto la cupola numero 89. Era bastato perderlo di vista per pochi attimi. Il tempo di un sospiro.

3.

Aveva sempre odiato la foreste. Muri di vegetazione impenetrabile che sembrano poter nascondere qualsiasi cosa. Ragnatele d'ombra, in cui ogni scricchiolio amplifica i battiti del cuore e il rosso di una corolla può annunciare una morte orrenda. Normalmente le evitava. Ma questa volta non aveva potuto. Le gallerie di raccordo che aveva tentato in precedenza lo avevano portato nei pressi di cupole impraticabili. La prima, un inferno di fiamme e crateri in ebollizione, dove la terra era magma in movimento e l'aria pesava come il piombo. La seconda, una landa piatta immersa nel buio assoluto. Gravità zero. Nessuna traccia di atmosfera. Aveva dovuto scegliere il male minore.