All'inizio erano solo piccoli dettagli, gesti senza importanza, sensazioni. Li guardo spesso, e non posso credere che siano veramente i miei figli. Il più piccolo, Simon, ha solo quattro mesi, ed è identico alla madre. E' un esserino albino, completamente glabro, con degli enormi occhi azzurri che illuminano il viso. Prima di andare al lavoro cambio il pannolino, e Simon è li, immobile, buono, e mi osserva. Chissà cosa pensa, ma, per la verità, non voglio saperlo. Non piange mai, non urla, non chiede. Si limita ad osservare, e a piegare la mia forza di volontà con lo sguardo. Se non fosse albino sarebbe uguale a tutti gli altri bambini, forse più bello. Ora devo scappare, altrimenti farò tardi al lavoro.

Il capo mi passa una telefonata urgente. E' il preside della scuola di Marc, l'altro figlio. Marc ha sette anni, e va alle elementari. E' intelligente, molto più intelligente dei bambini della sua età. E' successo qualcosa, ma il preside non vuole parlarne al telefono, è piuttosto agitato. Mi precipito fuori, guido come un pazzo nel traffico, il cuore in gola. Non sono preoccupato per Marc, ma per i suoi piccoli compagni.

Nel parcheggio della scuola c'è un'autoambulanza. Nel lungo corridoio principale, che percorro a grandi passi, vedo venire verso di me una barella, portata da due infermieri. Mi faccio da parte per lasciarli passare. Merda! Disteso sulla barella c'è un bambino che urla disperato e si tiene il braccio. Una matita da disegno è conficcata all'altezza del polso, in profondità. Il sangue sprizza fuori imbrattando tutto. Mi volto e li vedo uscire dalla scuola, diretti all'autoambulanza. Irrompo nella presidenza sopraffatto dall'angoscia. In un angolo della stanza c'è il preside. Mi guarda sollevato, come se avesse aspettato con ansia il mio arrivo. Dall'altra parte della stanza c'è Marc. E' impeccabile, come al solito. Il vestitino è ben stirato e immacolato, se non fosse per una macchiolina di sangue vicino al colletto. I capelli biondi sono pettinati da una parte, il volto imperturbabile. I suoi occhi si spostano su di me, e impallidisco, come al solito. Due pozzi neri pieni d'intelligenza e malizia.

- Cosa è successo Marc? - chiedo.

- Niente papà. - Sorride, un bel sorriso aperto.

So che non dovrei farlo e che me ne pentirò. Mi avvicino e gli do uno schiaffo. Marc sorride. Ancora, ancora. Il preside mi ferma prima che possa colpirlo di nuovo.

Torno in ufficio, provo a sbrigare le pratiche, ma non riesco a combinare nulla. Le schermate del monitor si confondono, si sdoppiano, non sono lucido ed ho una forte emicrania. L'orario d'ufficio è terminato da più di un'ora. I colleghi sono usciti tutti. Appoggio il capo alla scrivania, chiudo gli occhi e provo a tenere fuori tutto il resto. La verità è che sono terrorizzato. Una donna delle pulizie mi riporta alla realtà. - Signore, mi scusi, dobbiamo pulire le stanze... - Prendo la valigetta ed esco in strada.

Giro la chiave nella serratura e apro la porta del nostro appartamento. - Cara? - provo timidamente. Accendo la luce e, dallo spavento, faccio un salto. Erano fermi li, al buio; sapevano che stavo per tornare. Marc si limita a squadrarmi, serio serio. Si volta e va nella sua cameretta. Lydia resta immobile, accusatrice. Mia moglie è una bella donna. E' pallida, come tutti gli albini, e non ha le sopracciglia. I lunghi capelli biondi, sottilissimi, sono raccolti a coda. I profondi occhi azzurri indagano i miei.