Il Ministro è in piedi davanti a un telefono rosso posato sul grande tavolo intorno a cui siedono altri uomini. Nessuno riesce a staccare gli occhi dal telefono. Sudano e le gocce di sudore colano dentro i colletti delle camicie. Il Ministro alza il volto all'ingresso mio e dei signori dall'incredibile fretta. Scuote il capo e torna a fissare il telefono.

I tre che ho guidato restano rigidi ad attendere. Anche i loro occhi si fermano sul telefono. Tutta la stanza, tutto l'universo sembra aver trovato il suo centro in quel telefono rosso.

Il Ministro guarda l'ora e sospira. Anche gli altri tre guardano i loro orologi. Il mio fa le due e tredici minuti.

MANCANO DODICI MINUTI ALLA FINE

Parlano fra loro di cose che capisco solo a tratti. Dicono che l'ultimatum è stato trasmesso da Pechino ma che il governo cinese sostiene di non saperne nulla, proprio adesso che Russi e Americani hanno firmato per il disarmo nucleare.

L'ultimatum è sconvolgente: le grandi metropoli dell'Occidente sono state minate con bombe atomiche da cento megatoni. Le bombe sono state portate e montate un po' alla volta e ora basta un impulso radio per innescarle. Inutili i missili antimissili, inutili i satelliti, inutile lo scudo stellare . Il diktat è chiaro: disarmo atomico mondiale completo.

La scelta è caduta su Roma. La distruzione di Roma avrà uno scopo dimostrativo, come Hiroshima. A meno che Russia, America, Francia, India, Pakistan, Israele e tutte le altre nazioni che hanno armi nucleari non disarmino. L'ora zero per Roma è 2,25 pomeridiane, ossia le quattordici e venticinque di oggi.

MANCANO DIECI MINUTI ALLA FINE

Non c'è stato tempo neppure per riunire le Camere. Il presidente americano e gli altri governanti discutono da due ore. Il destino di Roma è nelle loro mani.

Qui nessuno sa niente. Ora capisco perché il Ministro mi ha fatto portare qui sua moglie e sua figlia. I romani vivranno l'ultimo secondo della loro storia bimillenaria senza sapere che è l'ultimo, sorpresi e cancellati nel pensieri e nel gesti più quotidiani. Non c'è altra soluzione: un'evacuazione della città è impossibile nei pochi minuti che mancano allo scoppio. Io sono solo al mondo e ho vissuto, ma mi dispiace per Roma. Tanto.

I tre che ho portato dal Ministro devono essere scienziati, perché adesso stanno parlando di megatoni e di strappo nel continuum spaziotemporale.

Mi pare di capire che al posto di Roma ci sarà un buco radioattivo profondo trecento metri e largo quindici chilometri. Loro continuano a parlare e a sudare. Io mi avvicino alla finestra e guardo fuori: voglio godermi questo spicchio di panorama, col Tevere che cola biondastro sotto i ponti. Voglio guardare tutto bene, ficcare tutto nel cervello, anche se sarà bruciato anch'esso con tutto il resto. Suona il telefono rosso.

MANCANO OTTO MINUTI ALLA FINE

Nessuno si muove, poi il Ministro allunga una mano sul ricevitore e lo alza. Con voce tremante:

- Hallò....

Ascolta quello che gli dicono dall'altra parte del filo. Pochi secondi. Gli occhi gli si riempiono di lacrime. Molla il ricevitore e grida:

- Vogliono vedere se è un bluff! Scoppierà! Viaaa!

Tutti si danno alla fuga verso gli ascensori e le scale.

Il Ministro mi afferra per un braccio. Mi mette sotto il naso il suo orologio:

- Otto minuti - sibila. - Otto minuti per salvare la pelle!

Mi spinge brutalmente verso la porta. Attraversiamo il corridoio correndo e ci precipitiamo lungo le scale fino di sfociare nel piazzale assolato. Un usciere cerca di fermarci, ma il Ministro tira fuori una pistola e il poveretto spalanca gli occhi più per l'assurdità del gesto di Sua Eccellenza che per la paura.