Un mondo migliore

La prima volta che sentii parlare del Premio Omelas pensai: "devo partecipare".

Ehm... In effetti, è ciò che penso quando sento parlare di qualsiasi concorso letterario. Da tempo illustri luminari della medicina mi hanno diagnosticato una gravissima sindrome, la "concorsite acuta", che si palesa in me nella frenesia con cui insisto nel proporre racconti e/o romanzi a tutte le malcapitate giurie che hanno la sciagurata idea di bandire un premio letterario...

Ma torniamo a Omelas: la voglia di prendere parte a un'iniziativa così ammirevole (sotto tutti i punti di vista, soprattutto la possibilità di entrare nei temi e nelle problematiche di Amnesty International) era così forte che mi fece superare le difficoltà oggettive del momento (la piccola Alice di pochi mesi). Così, con il biberon in una mano e la tastiera sull'altra, composi una storia breve che intendevo ambientare, nonostante il background SF, "qui e ora".

Non so se la consapevolezza del tema (i Diritti Umani) influì sul mio stile o sul mio modo di narrare: come sempre, tentai di essere invisibile per quanto potevo, perché secondo me più la scrittura è trasparente più la forza della storia risalta, e per l'occasione volevo un racconto lucido e gelidamente malvagio, una sorta di trattato sulla crudeltà.

Ancora riguardo al tema, ricordo che fui lusingato di scrivere per una causa così importante. Baricco dice che raccontare non è un vezzo da dandy colti, ma è una necessità civile che salva il reale dall'anestesia, e che spesso non è la realtà, ma il racconto, che ti incunea la realtà nella testa e te la fa esplodere dentro.

Io credo che sia vero: i fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in un racconto e te li spedisce in testa. E' la forza della narrativa, quel meccanismo per cui ad esempio le righe sobrie e meticolose di Primo Levi (o quelle accorate di Anna Frank) hanno negli anni veicolato l'orrore dell'Olocausto a chi non era neppure nato, oppure le pagine di Stern o Bedeschi fanno rabbrividire ancora, dopo che tanti decenni e tanti documentari visti ci separano ormai da quelle centomila gavette ghiacciate nella steppa. Le tragedie della Storia a volte ti scivolano via sulla pelle come l'acqua, se non te le inchiodano addosso, con la violenza (quella sì!) necessaria, la sensibilità e l'analisi disincantata di un narratore.

No so se la fantascienza sia adatta a questo scopo. Alcuni pensano che per scrivere sui grandi temi sia necessario il massimo del realismo, perché scenari troppo fuori dalla quotidianità tolgono forza e credibilità al messaggio. Altri ritengono che la SF abbia strumenti efficaci, perché può sezionare la realtà e mostrarne dettagli amplificati sul vetrino di un contorno artificioso, di fantasia, capace di farli risaltare come una soluzione di contrasto.

Io non so, e neppure voglio, schierarmi. Penso soltanto che ciascuno di noi, per aprire i troppi occhi chiusi, debba usare i grimaldelli che ha a sua disposizione. Per quel che mi riguarda, io scrivo fantascienza, dunque è naturale che attinga a quello stesso set di utensili che, peraltro, Ursula Le Guin ha saputo usare allo scopo con ottimi risultati.

Non credo di avere granché in comune con l'autrice di Omelas (meno che mai il talento, ovvio!). Tuttavia, è una delle scrittrici che più apprezzo, e con piacere tempo fa provai a imitarla dichiaratamente in un numero di Sotto Spirito (l'imitazione in questione è un racconto dall'irriverente titolo Cosa fai con la mano sinistra, là nelle tenebre?). In Un mondo migliore, però, non credo che ci sia alcun influsso leguiniano, se non la scrittura in prima persona con una protagonista femminile.

Nonostante questo "mascheramento", ebbi la sorpresa di sentire che Ernesto Vegetti (membro della giuria del primo premio Omelas) aveva riconosciuto subito la paternità di Un mondo migliore, nonostante che avesse ricevuto il dattiloscritto anonimo. Certa gente ne sa una più del diavolo, accidenti!

Chiudo parafrasando Groucho Marx: scrivere è bellissimo, perché puoi fare tutto ciò che ti viene in mente. E se non ti viene in mente niente puoi sempre scrivere per la TV. (Francesco Grasso)

Le nostre idee vedono lontano, perché siedono sulle spalle di giganti

Sir Isaac Newton

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Note squillanti intonano la Primavera di Vivaldi. Per un istante non riconosco la suoneria. Poi realizzo: è il Samsung privato, il cui numero mio marito riserva a pochi intimi. Ne vado in cerca. Lo trovo sul tavolino dello studio, accanto al cigno Swarowski dono della senatrice Docci. Il suo trillo fa vibrare il cristallo sfaccettato.

Accendo il visore, aspettandomi di vedere il volto di Livio.

- Sono Zerbi, signora.

Il segretario privato di mio marito. Mi preoccupo. Zerbi non mi rivolge mai la parola: per lui sono un soprammobile. Dev'essere accaduto qualcosa di grave.

- Un attentato. - sillaba Zerbi - Un pacco bomba. L'ingegnere è grave.

La testa comincia a girarmi. Sento il panico che arriva. No, non devo gridare. Mi mordo le labbra. Tremo. Mi reggo alla scrivania, lasciando impronte sul vetro come tracce carsiche di paura.

- Dove... dov'è adesso? - balbetto.

- In clinica. Ho già mandato una macchina a prenderla.

Lancio il telefonino sul sofà senza curarmi di spegnerlo. Corro a mettermi qualcosa addosso. Maria è impegnata con i pannolini di Marco. Non so cosa le dico, ma lei annuisce. Mi lancio giù per le scale.

Esco in strada. La macchina è lì che aspetta. E' un auto blu, ha il simbolo di un ministero. L'autista non batte ciglio, mi fa salire e parte, bruciando le corsie preferenziali del centro di Roma, ignorando sovranamente il traffico cristallizzato dell'ora di punta e i lavavetri di colore, che devono spiccare un salto sul marciapiede per evitare di essere travolti.

Il Sacro Cuore apre i suoi cancelli al nostro arrivo. Il giardino della clinica è verde, i cipressi del Gianicolo fanno cortina al sole estivo. Varco il portone col cuore in gola. Vedo Zerbi, spalleggiato dalle guardie del corpo di Livio. Il segretario di mio marito è grasso, e il sudore lo copre da capo a piedi. Discute con una donna in camice verde, copriscarpe sterili e bustina di carta sui capelli. Si accorge di me. Mi fa cenno, ma io preferisco rivolgermi alla dottoressa.

- Dov'è?

- Lei è la moglie?

Annuisco. - Posso... posso vederlo?

Scuote la testa. E' anziana, asciutta, nervosa. - Temo di no. E' in sala operatoria.

- Da tre ore. - aggiunge Zerbi, asciugandosi la fronte. - Caldo maledetto!

- Dottoressa... - Leggo il suo nome sulla targhetta - ...Manganaro. La prego, lui come sta?

Zerbi mormora altre imprecazioni, ma la donna non gli bada. Le sono grata. Fa schioccare le labbra in un gesto schietto.

- La situazione è seria, signora: suo marito ha subìto un trauma toracico. L'esplosione lo ha investito dal basso verso alto, gli ha spezzato lo sterno e fratturato quattro costole. Per fortuna si è protetto il viso con le mani, ma ha ferite anche all'addome. Diaframma e pleura sono stati perforati. Abbiamo tentato di estrarre le schegge, ma sono troppe: l'ordigno doveva essere...

- Tchai 34. - sento mormorare uno dei gorilla di Livio - Cinese e figlio di puttana. Il rivestimento polverizza: se sopravvivi al colpo, crepi avvelenato.

Il medico lo fa tacere. - I frammenti sono penetrati in profondità. Impossibile drenarli. Cuore e polmoni sono collassati.

- E... allora? - azzardo, con una gran voglia di svenire.

- Abbiamo collegato suo marito al sostentatore e lo abbiamo preparato al trapianto. Ora che lei è qui, possiamo procedere.

- Ora che...? - ripeto, confusa.

- Dobbiamo sostituire cuore e polmoni. Significa terminare l'entità biologica. Secondo le regole della clinica, occorre il consenso del proprietario o del parente più stretto.