Il futuro nel ciclo di Terminator e il presente in Matrix occupano il polo estremo della tecnofobia, in cui la scintilla dell'autocoscienza coincide nelle macchine con la decisione di scatenare una guerra globale contro l'umanità. In questi film il computer e il robot sono nemici assoluti da cancellare prima che lo stesso destino tocchi all'uomo. L'implicazione è chiara: il momento in cui la creatura viene dotata di intelligenza rappresenta la soglia di non ritorno. Per questo in Terminator 2: Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgment Day, regia di James Cameron, USA 1991) l'obbiettivo del viaggio a ritroso nel presente non è più solo tenere in vita John Connor, il futuro capo dell'insurrezione contro le macchine, ma anche cancellare dalla faccia della terra e dalla mente degli scienziati un'invenzione, il chip da cui trarrà origine la prima vera intelligenza artificiale. In questo modo l'aspirazione ultima del film diventa la ricreazione nostalgica di un mondo pre-tecnologico, come se la pace e il rispetto dei diritti umani esistessero nel passato, anziché dover essere conquistati nel futuro.

La premessa di Matrix (The matrix, regia di Andy e Larry Wachowski, USA 1999) è ancora più radicale: le macchine non trionferanno sul piano militare, ma su quello dell'informazione, ovvero dell'intelligenza, creando un mondo simulato in cui gli umani si illudono di vivere liberamente, mentre in quello vero sono prigionieri di congegni che ne assorbono l'energia vitale. Anche qui il rigetto della tecnologia è totale, nonostante il film - come del resto il secondo Terminator - fondi gran parte del suo successo sulla sofisticatissima simulazione creata dal suo apparato di effetti. Oltre a porsi in un rapporto piuttosto ambiguo con la tecnologia che lo costituisce, Matrix sconcerta per certe implicazioni che si possono trarre dall'agire dei suoi protagonisti. La celebre scena del salvataggio di Morpheus da parte di Neo e Trinity, in cui i due irrompono in un palazzo controllato dall'esercito compiendo una carneficina rappresentata sotto forma di danza, illustra un punto della trama generalmente poco discusso: ovvero che le vittime del massacro al di fuori della simulazione non sono macchine, ma esseri umani ridotti in schiavitù. Sotto il fragore della musica e delle raffiche dei fucili automatici, dietro il compiacimento scenografico della sequenza, sta la negazione del diritto ad esistere di persone che, nella finzione del film, hanno la sola colpa di non essere predestinate come Neo a sollevare il velo della simulazione. Il cerchio è così completo: difendere la sacralità dell'umano dalla minaccia delle macchine diventa alibi per il sacrificio della massa, esclusa a sua volta dalla famiglia umana.

Il polo opposto è rappresentato dai film che fanno dell'accettazione dell'altro meccanico un imperativo morale nel nome di un più alto concetto di umanità. E' il caso ad esempio di A.I. - Intelligenza Artificiale (A.I., regia di Steven Spielberg, USA 2001) e de L'uomo bicentenario (The Bicentennial Man, regia di Chris Columbus, USA 1999), le storie di due robot e della loro inclusione - questa volta in senso letterale - in altrettante famiglie umane. Quali che siano i meriti dei due film, si tratta ancora una volta di storie molto schematiche ed in fin dei conti assai più moralistiche che morali; storie in cui le macchine non aspirano ad altro che a diventare uguali ai loro creatori, stabilendo implicitamente una gerarchia in cui umano equivale ad ideale; questo nonostante in A.I. l'umanità venga rappresentata nei suoi caratteri più spregevoli, specie nelle lunghe sequenze riservate alle torture inflitte ai "mecca", e nonostante l'unico personaggio insieme al protagonista in grado di mostrare compassione sia anch'esso un robot. Ma se la futura sintesi di uomo e macchina, il cyborg, fosse in tutto uguale a noi eccetto che per le parti di ricambio - come sembrano suggerire questi film - non varrebbe neanche la pena di inventarlo. Quando l'altro cessa di essere tale, accettarlo diventa fin troppo facile, non richiede più alcuno sforzo morale o di immaginazione.