Diritti alieni

In fantascienza, a porre per primo l'America a rovescio era stato Washington Irving nel 1809, inserendo nella sua umoristica Storia di New York un capitolo dove, avendo evocato lo sterminio dei nativi, si immaginava un'invasione della Terra da parte dei "Lunatici", che nella superiore saggezza della loro civiltà e della loro religione, concedono in uso ai terrestri delle piacevoli riserve in Lapponia e nel deserto dell'Arabia.

Alieno, alien, in americano è lo straniero, l'immigrato-e molte sono state le guerre che nei paesi anglofoni hanno visto gli enemy aliens, i nemici alieni originari dei paesi avversari (Italia compresa), internati fino alla riclassificazione, talvolta, come alieni "innocui". Qui, forse, parlando di fantascienza, ci vorrebbe una digressione che parlasse di serie TV come Star Trek e Alien Nation, o (per la saga che ha sviluppato con piu' coraggio l'immagine del mutante) di fumetti come X-Men.

Per partire (gli amori letterari, come tutti gli amori, esigono la priorità) da Philip K. Dick, in Il mondo che Jones creò (The World Jones Made, 1956), la segregazione dei mutanti e lo sterminio degli alieni sono un chiaro discorso sui rischi distopici impliciti nel presente di quegli anni; e in Noi marziani (Martian Time-Slip, 1963) è la condizione (e lo sguardo ironico) degli straordinari "Bleekmen", i marziani conquistati, a metà fra indiani costretti in riserve e neri costretti in servitù, a rivelare per prima la vanità delle illusioni colonizzatrici dei terrestri. Ugualmente, la rivolta degli androidi del Cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) e dei replicanti di Blade Runner è fra le altre cose la rivolta di schiavi che rivendicano un loro diritto all'esistenza in un mondo che pubblicizza l'espansione "extramondo" come un ritorno alle piantagioni del Sud dell'era schiavista.

Di diritti alieni parla il canadese Robert J. Sawyer, nel suo legal thriller fantascientifico Processo Alieno (Illegal Alien, 1998); di diritti "robotici" aveva parlato Asimov in L'uomo bicentenario (The Bicentennial Man, 1976), la storia un poco lacrimosa ma assolutamente unica del robot che rivendica in tribunale il diritto di acquisire la condizione di cyborg e poi di umano; e in alcune storie di John Varley (come in un Urania intitolato Bolle d'infinito) il cyborg nello spazio era diventato un modo per dimostrare la relatività del concetto di handicap.

Ma appunto sono le storie di contatto con gli alieni, nella cornice avventurosa, a essere mosse dal riconoscimento della diversità. Se per tutto l'inizio del Novecento le "razze perdute" di Edgar Rice Burroughs, Abraham Merritt e altri erano poco più che storie esotiche (ma bisognerebbe rileggerle e scopriremmo anche lì delle piacevoli sorprese), con gli anni Trenta, a partire dalla Odissea marziana (A Martian Odyssey, 1934) di Stanley Weinbaum diventano parabole sulla desiderabilità e sul piacere della comunicazione coi diversi. Il tema non è più quella della guerra o della lotta darwiniana per l'esistenza, ma l'accettazione che anche nell'Altrove interplanetario ci sono storie, presenze, vite, individui, conflitti.