"Ci sono libri il cui stile sono le cose"

Edmund Wilson

Sogno ancora Giuseppe, questa è la verità. Sogno ancora quella giornata di cinque anni fa. Ma anche quando non sogno non faccio altro che tornare lì. Sono a casa mia, avvolto dalla torrida estate romana, mi sono congedato dall'Esercito nel 1987, sono due anni che io e Dina ci siamo sposati, lei aspetta il nostro primo figlio, eppure, in un certo senso, sono ancora lì, in quella faggeta, con gli altri del "Butera", con Ribicchini, Magni, Cuntrera. Con Giuseppe. Sono passati quattro anni, ma quel freddo, quella neve, quella luce candida non posso togliermeli dalle mani, dalle gambe, dagli occhi. Ho un lavoro, una famiglia, tra poco anche un figlio, manca solo una settimana alla fine dei nove mesi, eppure quello che devo continuamente pensare e che mi tormenta è solo e soltanto quel maledetto pomeriggio del 29 novembre, sono solo e soltanto i fatti di quelle ore passate sui contrafforti del Gran Sasso, non lontano dall'Aquila.

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Ma una storia deve avere un certo ordine. Bisogna rispettare le formalità, e una di queste è presentarsi. Posso farlo come al "Butera", quando correvo fuori dalle righe, scattavo sull'attenti davanti all'ufficiale che mi aveva intimato di presentarmi e gridavo con quanto fiato avevo in corpo, con la voce sempre rauca: "Carrista Mancini Giacomo, 1° plotone, 2^ compagnia fucilieri, COMANDI!".

Ecco chi ero e cos'ero allora. Uno dei tanti scoglionati in mimetica e anfibi, col foulard rosso e blu dei carristi al collo e un basco troppo grande calcato in testa, che come gli altri passava le sue giornate nella grande e mesta caserma "Pasquali-Campomizzi" dell'Aquila, aspettando che finisse quell'avvilente anno di naja. Ce ne mancava ancora parecchio, il 28 novembre: mi sarei congedato a fine maggio; però quel giorno la vita non si presentava tanto male, perché davanti a me splendeva la ministeriale, quei cinque giorni di libertà natalizia che mi avrebbero restituito Roma, la mia famiglia e la mia ragazza di allora.

Anche Giuseppe Crisolora faceva parte del nostro battaglione, il 9° corazzato "M.O. Butera", ma per tutta una seria di buoni motivi viveva in un altro mondo. Era caporale, per cui faceva servizi del tutto diversi dai miei: tra noi due non si creava nemmeno quella familiarità forzata del montare più o meno spesso di guardia insieme. Inoltre era del 2° scaglione, aveva quattro mesi di militare più di me, e dal congedamento dell'8°/85 era nonno, con tutta quella serie di privilegi derivanti dalla ferrea legge non scritta del nonnismo, tra cui quello di non doversi mischiare con i rospi del 5° come me (solo quando sarebbe arrivato l'8°/86, verso i primi di dicembre, avremmo finito di essere batraci e avremmo salito il primo gradino nella gerarchia invisibile ma potentissima che dominava tutti i rapporti umani effettivi nella caserma).

Eppure, a pensarci adesso, devo dire che non erano né il grado né l'anzianità a separarci, quanto il carattere taciturno di Giuseppe, che alla fine lo allontanava anche dagli altri graduati del suo stesso scaglione. Parlava solo per monosillabi, era molto riservato sulla sua vita privata, usciva di rado dalla caserma, quasi sempre da solo; per lo più restava dentro a leggere o a scrivere lunghe lettere a qualcuno, Dio sa chi.