Mi avvio lungo il corridoio, lasciando alle mie spalle il clic del cancelletto automatico.

Devo farmi forza. Anche se sapere esattamente cosa mi attende non rende certo più facile la sopportazione.

Cammino a passi molto lenti, per far durare il più possibile il tragitto, e intanto studio con cura ogni particolare dei muri ingialliti. Erano smaltati di verde fino a una certa altezza, ma ormai il colore è tutto scrostato.

Non fanno più manutenzione da anni - un costo inutile- e anche le pulizie sono ridotte all'osso. Una sciacquata ai pavimenti, una passata ai cessi, e via. L'intera ala è completamente abbandonata, a parte noi pochi sventurati che vi siamo rinchiusi. Uno per corridoio.

Uno scheletro di edificio ridotto a prigione da incubo, che ufficialmente continuano a chiamare "Sezione Amministrativa". Tutti qui sanno cos'è, ma tacciono. Per paura di finire come noi. O anche per connivenza con i nostri carcerieri. Del resto, per essere sbattuti così in isolamento, qualcosa l'avremo pure combinato, no?

Se anche fosse, di certo la punizione è delle peggiori. So bene che potrei farla finire in qualsiasi momento, dicendo solo una parola, ma no, non posso. So che non posso. Non voglio neanche pensare di non farcela.

E poi, con il tempo, si è aggiunto qualcos'altro: rabbia e testardaggine. Cedere sarebbe una sconfitta, sarebbe ammettere che hanno ragione loro. L'orgoglio è l'unica cosa che mi sia rimasta. L'unico sostegno a cui aggrapparsi, la dignità.

Sono arrivata: sono solo pochi passi - esattamente, ventitré - e durano qualche minuto. Anche rallentando, fermandomi, inventando filastrocche o contando le crepe del muro, non sono mai riuscita a prolungare più di tanto il tragitto.

Di fronte ho la porta sbiadita dei servizi. Lì ci sono molte possibilità: il cesso, il lavandino, lo specchio, le piastrelle da contare... Persino l'unica finestrella che riesco ad aprire: uno spiraglio da cui si vede il cielo. Posso osservare le nuvole, il colore dello sfondo... Di questi tempi ci sono i cirri, sottili come batuffoli, e qualche rondine che sfreccia stridendo. Anche se la puzza degli scarichi perennemente intasati non aiuta certo la poesia della contemplazione.

Rimando a più tardi, comunque. C'è tempo. Anche troppo. Così piego a sinistra, verso la stanza che mi è destinata. La mia cella.

Lascio sempre la porta aperta, per evitare la sensazione di claustrofobia. Ma l'assenza di rumori, specie umani, è impressionante.

Spesso mi diverto a rimanere in ascolto, e contare i secondi. Passa sempre più di un minuto fra un suono e l'altro. Sono piccoli rumori inanimati, fruscii, tonfi, scricchiolii... Però non ho mai visto un essere vivente. Neanche un ragno, un insetto.

Il record fra un rumore e l'altro è stato di duemilaseicentosessantasette secondi. E' successo più di due mesi fa, e finora non è stato battuto.

Quella è la parte che preferisco, giocare con il mio ruolo di prigioniera. Sono una sognatrice, io, una romanticona, e così posso sentirmi eccitata, importante, pensare di vivere un'avventura. Il castello d'If, le mie prigioni, la maschera di ferro... e tutte quelle robe lì. A volte mi diverto per giorni interi, con queste fantasticherie da cappa e spada, e il tempo scorre veloce come un ruscelletto di montagna.

Altre volte non è così semplice. La cosa peggiore è la desolazione. Non riesci neppure a immaginarti mali e catastrofi, perché non c'è niente che ti sembri peggiore di questo assoluto, totale, implacabile nulla, di cui non ricordi più l'inizio e che ti sembra non avrà mai fine.