racconto di

Remo Guerrini

Fiori di cartapesta

Una lunga storia quella che accomuna me e Remo su per (come ebbe a dirmi una volta Lino Aldani) gli asperrimi sentieri della fantascienza. Ne ho già parlato in Strani giorni, il Millemondi Mondadori che ho curato e in cui era presente un bellissimo racconto di Remo, inutile dunque star qui a ricordare le occasioni in cui ci siamo sfiorati per strada.

Come autore, Remo Guerrini ha già al suo attivo diversi romanzi e alcuni racconti difficili da dimenticare. Uno di questi è Fiori di cartapesta che Delos ripresenta dopo quasi vent'anni dalla sua ultima apparizione, in una antologia Garzanti curata da Inìsero Cremaschi. Il racconto, evocativo e magico pur parlando di razzi e di conquiste spaziali, è rappresentativo dell'intera produzione di Guerrini, uno scrittore di stile e di atmosfere che comunque non rinuncia mai a coinvolgere il lettore in trame appassionate (valga per tutti l'esempio del suo romanzo più bello, Strega, pubblicato da Interno Giallo). Ma Remo, oltre che scrittore, è stato ed è un giornalista di prestigio, che ha saputo raggiungere tutte le vette del mestiere.

Dopo il praticantato presso un'agenzia Ansa, è stato, per un decennio, redattore, inviato e vice capo redattore presso "Panorama" e "L'Espresso". Ma le tappe della sua carriera non si fermano qui. Dopo aver fatto il capo redattore presso il "Secolo XIX", ha assunto la vicedirezione di "Vera", è stato direttore di "Focus" per tre anni, di "Epoca" per tre mesi, del settimanale Mondadori "Primo Piano", e alla fine direttore de "Il Giorno" e direttore editoriale delle testate della Poligrafici Editoriale, ovvero "Il Giorno", "Il Resto del Carlino" e "La Nazione".

Una carriera davvero invidiabile, ma la parte migliore che mi piace ricordare è quella dello scrittore. Come dimostra questo struggente e bellissimo racconto che riproponiamo ai lettori di Delos. (Franco Forte)

Si spogliava piano, lasciando cadere i vestiti sul pavimento, la gonna prima e poi il collant, continuando a dargli le spalle. Poi gli mostrò i fiori di cartapesta. - Te li ricordi? Ci eravamo appena conosciuti, a carnevale. Li ho portati via alla fine della festa e li ho conservati per tutto questo tempo. Ieri li ho presi, quasi senza accorgermene, mentre uscivo da casa.

Toccò i petali stinti con delicatezza: non avrebbe voluto trovarseli in polvere fra le dita, proprio adesso. - Dormiamo, vuoi? - disse.

Il corpo di lei era bianco, e immobile accanto al suo. François le toccò piano la mano. Sentiva il lenzuolo umido e freddo. Poi si girò sul fianco, e lei lo guardò dritto negli occhi, per la prima volta da quando era entrata.

- Perché sei venuta? - disse lui.

Lei sorrise. - Sarà stato per amore?

... eh l'amore, l'amore è rimasto lassù, avrebbe voluto risponderle, l'anno passato, oltre i lampi a zig zag che adesso disegnano il cielo pieno di neve, oltre Marte rosso come un chicco d'uva passa...

- Dormiamo.

Sentiva il sospiro di lei sul proprio petto, leggero, lei dormiva come sempre, con le labbra strette e le dita chiuse a pugno. I suoi abiti erano una macchia indefinita sul linoleum. Si assopì guardandoli, ma si risvegliò poco dopo. Anche lei era sveglia, adesso, e piangeva piano. - E' come camminare nelle strade di febbraio, quando piove. Ti ci puoi specchiare, nell'asfalto nero, ti vedi anche in faccia, ma tutto è sottosopra. Ecco, mi sento tutta sottosopra.

Che strane idee. François le asciugò la faccia con il dorso delle dita.

- Dov'è la macchina del caffé? - fece lei.

- Non ce l'ho più.

Il brontolio del pilota meccanico era cessato solo quando il razzo era penetrato nel sistema solare, aveva oltrepassato l'orbita di Nettuno e poi quella di Saturno, e il fuso d'oro era rimasto inerte, trascinato verso il sole. Poi, quando la Terra, verde come un limone acerbo, aveva riempito gli schermi, il razzo aveva gettato fuoco contro lo spazio, rallentando la lunga caduta.

...le cellule disperse del corpo di François si riunivano ancora, per comporre le cartilagini, l'ossatura e i lunghi fasci di muscoli, e poi ci dipingevano sopra la pelle... Un brivido elettrico era scivolato lungo le pareti della bara di cristallo: migliaia di perle luminose avevano increspato l'acqua, e la superficie della bara aveva cominciato a bollire, mentre le cellule disperse del corpo di François si riunivano ancora, per comporre le cartilagini, l'ossatura e i lunghi fasci di muscoli, e poi ci dipingevano sopra la pelle, applicando le formule misteriose contenute da qualche parte, nel cervello del razzo. Alla fine François era uscito dalla vasca, e si era rivestito piano, con le giunture dolenti nella sua nuova buccia. Chissà se la creatura di Victor Frankenstein s'era sentita così, al suo risveglio?

Poi il razzo era sceso sull'altopiano, mentre tutto il suo organismo metallico scricchiolava. François aveva sospirato, per tutti quei chilogrammi che, all'improvviso, qualcuno gli aveva caricato sulle spalle. Attraverso il portello spalancato entrava un'aria sottile, che gli lasciava i polmoni secchi.

Fuori, le telecamere mobili si erano avvicinate, strisciando come vermi d'acciaio lucido, con un solo, grande occhio acceso. Avevano inquadrato il fuso ancora ardente, e le piaghe sulla sua superficie esterna. Anche gli autocarri di Tomorrowland si erano arrampicati in fretta verso le rocce, cercando di arrivare al portello prima di quelle pupille senza ciglia. Un uomo era saltato da una jeep, ed era andato di corsa fino al razzo. Aveva colpito con il taglio di entrambe le mani il verme automatico della Cnn, che stava già strisciando dentro, e l'aveva frantumato contro una paratia.

François aveva cercato di sorridergli. L'uomo invece gli aveva schiacciato sul viso la maschera nera di un respiratore, senza dire una parola. I vermi televisivi s'erano impennati. L'uomo aveva preso François per un braccio, e l'aveva tirato fuori dal razzo. Fuori, le telecamere ondeggiavano come cobra. L'uomo le aveva scostate con una mano e aveva sputato per terra, mentre la jeep si accostava, sobbalzando sulle punte di manganite dell'altopiano.

- Via, andiamocene, - aveva detto l'uomo, spingendo François sull'auto. Aveva fracassato con un calcio il monocolo di un'altra serpe che si attorcigliava sui mozzi di una ruota. - Andiamocene.

Poi altri uomini avevano circondato il razzo e l'avevano fasciato con lenzuola di nylon alte dieci piani, con gli stemmi gialli e rossi dello sponsor.

Pioggia tiepida, che veniva dal mare.

François aveva guardato in alto, verso il cielo nero, e le gocce d'acqua gli erano cadute sugli occhi. Aveva sentito sciogliersi piano il fard che gli era stato spruzzato sul viso, prima della trasmissione. Era sicuro di avere il colletto della camicia imbrattato. Attraverso le porte di cristallo erano passati anche l'ultimo applauso, e la musica, e il jingle di Tomorrowland, lo stesso che era suonato anche quando il razzo era atterrato, lassù.

François aveva guardato anche l'attricetta bionda, che poco prima non aveva fatto altro che ridere, recitando con lui le battute scritte sul copione. Come si chiamava? Pandora Passion, o Patty Pillons, o qualcosa del genere. Anche il trucco di lei stava andando piano in malora.

Prima di lasciarlo andare, alla base, lo avevano rivoltato come una vecchia tunica, avevano frugato il suo corpo come se fosse stato una tasca, avevano contato le ulcere e le abrasioni su ogni millimetro quadrato di pelle, mentre altre sonde gli correvano nelle arterie. - Positivo, - aveva detto alla fine la voce ferruginosa di un Cray.

- Okay, è lui, - aveva aggiunto un infermiere, come se invece avesse potuto essere chissà chi, e gli avevano finalmente tolto la maschera nera dalla faccia, e sfilato il boccaglio che lo faceva vomitare.

- Com'è andata?.

François non aveva trovato le parole per rispondere a una domanda così stupida, e lì per lì non era proprio stato capace di farsi capire: per troppo tempo aveva parlato solo con il razzo, battendo su una tastiera Qzerty.

Ora sono a terra davvero, aveva pensato più tardi, schioccando le labbra, la Terra era un bicchiere di chardonnay, i sandwich con la pasta di prosciutto e il puzzo di sudore nelle stanzette della base, e il chewing gum rimuginato mentre gli occhi chiari dei tanti Doc guardavano il film dei ricordi che il razzo aveva registrato, durante un viaggio così lungo e buio. Dopo, soltanto dopo tutto questo, l'avevano lasciato andare, l'avevano restituito allo sponsor, e finalmente era potuto entrare nelle case di tutti, sorridendo nelle pareti televisive, dove la sua figura si muoveva in scala 1: 1,e i ragazzini potevano ben dire di aver avuto in salotto l'Uomo del razzo.

Sul cordone dei poliziotti, all'altro capo della strada, si era infranta un'ondata di gente. Gridavano. Una ragazza gli aveva cacciato in mano un taccuino. Aveva agitato una penna.

- E dài, firma, - aveva detto Pandora Passion o Patty Pillons.

O perdio, la firma... aveva pensato François. Aveva visto brillare i lampi, uno, due, tre lampi, e sentito pronunciare un nome che non gli sembrava nemmeno il suo, l'Uomo del razzo, perdio, chi è l'Uomo del razzo?

- Dài, non puoi mica tirarti indietro, adesso.

Pandora Passion o Patty Pillons gli si era avvicinata, aveva premuto il suo corpo sintetico contro il suo, agitando una mano ai flash. François aveva schiacciato le dita sulle instant card dell'autografo elettrico, aveva sorriso ancora mentre la polizia scioglieva quel can can vaporizzando Gardenale 2 nella strada, e alla fine era rimasto dritto in mezzo alla strada, mentre la pioggia si faceva più fitta.

- Aspettami qui, cerco un taxi, - aveva detto la bambola.

Ormai i capelli gli colavano sulla fronte, e il fard sembrava sangue secco sul suo colletto. Poi François aveva visto il bambino, così magro e con quelle assurde orecchie a sventola, prima il bambino e poi la donna, ma l'aveva riconosciuta subito, per i capelli chiari appena un poco sbiaditi, gli stessi occhiali di una volta sugli occhi verdi, e le spalle solo un poco più esili.

L'aveva trascinata di corsa sotto la tettoia, all'ombra del teatro.

- Stavi lì in mezzo?.

La donna si era tolta gli occhiali, li aveva ripuliti con la manica del vestito, rideva o piangeva?, poi aveva detto: - Volevo la tua firma, l'autografo, per il bambino.

- Il bambino?.

- Mi sono sposata. Sei stato via tanto, lassù. Mi sono sposata dopo un po', ma eravamo d'accordo, no?

- Lilly, - aveva mormorato François, e non aveva trovato altro da dire. Aveva sentito, nel petto e in testa, un vuoto inatteso: qualcosa avrebbe dovuto rompersi e invece non si era rotta, le parole della donna gli erano passate addoso senza graffiarlo, mentre avrebbero dovuto scavargli nello stomaco. Il suo sguardo era corso nella strada buia. Perché non gli veniva su niente, come se a immaginare quel momento, tante volte mentre il razzo si avvicinava al pianeta bigio, fosse stata un'altra persona?

Un taxi sgocciolante era sceso nel canyon della Broadway, e si era posato ronzando sull'asfalto, come un calabrone di plastica nera. François aveva sfilato dalle dita del bambino l'instant card e ci aveva premuto sopra le dita. - Eh, vieni, - aveva gridato Pandora Passion o Patty Pillons, sporgendosi dal finestrino del taxi.

François aveva guardato il bambino, e poi Lilly, così fredda, bagnata e vecchia.

- Ciao.

Il calabrone aveva battuto le ali, ed era scomparso in alto, dietro all'ombra scura dei grattacieli.

...gli insetti elettronici ronzarono nell'aria fine, colsero campioni di ossigeno e azoto, rotearono le sfere degli occhi per fotografare i picchi e le pianure chiare... Il razzo s'impennò, tagliò lo spazio, e scese piano nell'atmosfera del pianeta bigio.

François mandò fuori le mosche. Gli insetti elettronici ronzarono nell'aria fine, colsero campioni di ossigeno e azoto, rotearono le sfere degli occhi per fotografare i picchi e le pianure chiare. Poi tornarono, e il razzo li accolse nelle nicchie scavate a prua, nello scafo. Le informazioni raccolte corsero nel cervello.

Il razzo decise di scendere ancora. Bruciò con i getti l'erba secca della piana, e affondò le zampe d'oro nel terreno friabile. Attese. La radio interna mandò il jingle di Tomorrowland.

François guardò la valle, e i monti che la contornavano, come una corona. Batté sulla tastiera, nel ponte di comando. Qzerty. OptionS. OutY.

Il portello crocchiò, poi si spalancò. I gradini della scala mobile frusciarono. François scese.

Nel cielo erano fioriti gli aquiloni: il vento li sbatteva con lunghe folate fredde, e il cavo sottile che li univa al razzo era teso, e schioccava. I loro occhi elettrici spingevano lo sguardo oltre l'orizzonte. Sotto la tenda candida, rizzata all'ombra del razzo, François osservava sullo schermo del Powerbook Z le immagini riprese a più di mille metri di quota: era un panorama grigio, immoto e triste. La valle risaliva piano il pendio delle colline, poi un'altra valle scivolava al di là della cresta battuta dal vento, quindi un'altra valle, e un'altra ancora. Uno sterminato oceano percorso dalla vallate, come onde lunghissime.

Poi un aquilone s'era impennato leggermente, dal Powerbook era venuto lo squillo di un droplet, e un colore era scintillato sul monitor. Rosso, verde, poi di nuovo grigio. François aveva posato sull'erba la tazza del caffé, si era alzato ed era uscito dalla tenda.

Aveva puntato il binocolo verso nord-est-est. Poi si era messo a ridere. Aveva battuto sul computer, e interrogato il cervello del razzo. Gli aquiloni aveva analizzato di nuovo l'atmosfera. Ossigeno. Azoto. Anidride carbonica... non era ubriaco, aveva stabilito il razzo, e aveva suggerito il procedimento Bravo, l'emergenza passiva.

François era rimasto dritto accanto alla tenda, e aveva guardato ancora nel binocolo. Qualsiasi cosa fosse, un miraggio o una strana bestia locale o l'inviato dell'imperatore, era una cosa ben strana. Procedeva sull'erba, con un soffio leggerissimo.

François aveva battuto di nuovo sul computer.

- Che cos'è, sacramento... identificazione.

Il razzo aveva risposto. Sullo schermo del Powerbook la mano di un pittore elettronico aveva cominciato a tracciare un disegno, linee verticali, poi orizzontali, rosse e verdi. Un veicolo. Quattro ruote. Un veicolo a ruote. L'immagine sullo schermo era girata e gli aveva offerto una nuova prospettiva.

- Sacramento, - aveva ripetuto François, che non credeva al diavolo o ai fantasmi, e quando si era arruolato l'aveva messo anche per iscritto, sui moduli di Tomorrowland. Il vento del pianeta aveva cominciato a soffiargli in faccia un gelo improvviso. Quella cosa si era fermata, adesso, e luccicava nella pianura, con i fari accesi e il motore che borbottava.

François le era andato incontro e, a ogni passo che l'allontanava dalla tenda e dal razzo, il droplet nel Powerbook mandava un segnale sempre più acuto, "procedimento Bravo", "procedimento Bravo", "procedimento Bra..."

Provava la stessa sensazione di vent'anni prima, quando in un giorno d'agosto aveva visto suo padre passeggiare in High Street, fra la gente. Suo padre a quel tempo era morto già da sei mesi. François era impallidito, si era fermato, le spalle al muro, ma l'uomo era passato senza cogliere il suo turbamento, e semplicemente ignaro di quella sconvolgente somiglianza. Lì, nella valle bigia, François sentiva in gola lo stesso groppo di allora: la Volkswagen Replica aveva le spazzole del tergicristallo consunte, e lo stesso taglio sottile sulla capote provocato, in un giorno di temporale, da un foglio d'alluminio portato dal vento. La Replica era stata la macchina preferita dal nonno, che l'aveva lasciata a sua padre, che prima di portarla dallo sfasciacarrozze, quando lui era ancora meno che bambino, aveva permesso a François di giocare sui sedili di cuoio stinto.

Le ali degli aquiloni avevano continuato a sbattere, e François si era avvicinato all'automobile. Era vuota, ma i fari erano come grandi occhi spalancati davanti a lui: osservarono le sue gambe larghe, solide sul terreno, fasciate di microtene candido, e le mani ancora strette sul binocolo. E i capelli chiari sulla fronte, che il vento scomponeva.

Poi François aveva aperto lo sportello dell'auto. L'imbottitura era di cuoio nero. L'aveva fatta mettere suo nonno, scegliendo la pelle nel catalogo dell'America-on-line. L'odore era aspro e inconfodibile. - Perché non hai messo l'alcantara? - aveva protestato la nonna, un paio di volte, senza avere risposta.

François si era lasciato cadere sul sedile. Lo sportello s'era chiuso, con un tonfo soffice.

Il chirurgo operava con un bisturi di luce, attraverso gli occhi. Era curioso, scavava i nodi della memoria e li apriva e li scioglieva.

Questo, per esempio, che cosa vuol dire?

A sei o forse sette anni pensavo che settembre fosse un mese strano, un mese non cattivo, un mese bizzarro ancora pieno di nostalgie e languori estivi, agosto lasciava nell'aria ancora il sapore dell'estate, ma l'ombra dell'autunno era ancora lontana, così noi ragazzi vivevamo giorni immobili nelle strade, a giocare con il pallone e a mangiare pane e grappoli d'uva, in attesa che i tramonti diventassero più brevi, le sere più fresche, e allora cominciava il conto delle settimane che mancavano a dicembre e a Natale.

Il chirurgo era come un pescatore, e gettava l'amo attraverso gli occhi.

Com'è strano, ma non doloroso, pensare a Lilly camminando ancora su questa triste spiaggia e questa cupa rena sporca di ciuffi d'alghe malate fra i ciottoli. L'ha presa proprio male, la storia del razzo, eh? Dice che andare nello spazio è proprio una cosa da straccioni, che solo i disperati lo fanno, e che è come emigrare, e che tanto lassù non c'è niente, perché se ci fosse qualcosa ci manderebbero la gente per bene.

Che cos'è Lilly?

Il chirurgo la cercò attraverso le pupille sbarrate di François, e ben sotto la corteccia, e poi giù giù, tagliando e tracciando la strada dell'anima con il bisturi di luce, e gettando sul sedile della Replica coriandoli e tendini, piccole ossa, muscoli innervati e stelle filanti di un lontanissimo carnevale.

Che importa? Tutto nell'universo è replica.

Poi François si era accorto che era arrivato l'inverno, con i suoi cieli puliti e freddi, e gli stormi di cicogne lunghissimi sul parco e, ancora di più, con il silenzio dei corridoi nell'alveare. Le scale dell'albergo pubblico erano appese sulla facciata, all'esterno, e le falde del cappotto di François s'imbiancavano di neve, ogni volta che tornava nella sua stanza. I fiocchi si posavano anche sul distintivo di pilota, e François li scrollava via, ma poi rialzava il bavero, e addio distintivo: d'altra parte, da quanto tempo nessuno l'additava più per strada, o gli porgeva l'instant card?

Disse Ignazio: - Questa neve mi entra nelle ossa, sporca com'è. E' corrosiva, la neve sporca. Non mi piace. Dove sono nato io, non nevica mai.

- E chi se ne frega.

L'alveare era un po' fuori città, ai bordi della campagna arsa dai fosfati, e Ignazio veniva dal Messico, e la sua stanza era accanto a quella di François.

- Però tanta neve non me la ricordavo, - disse François. Aprì la bocca e girò la faccia scarna verso il vento. Gli si riempì la gola di neve. - Però è buona, - ripeté. - Non l'avevo mai assaggiata.

- O sei scemo, o sei bugiardo, - rispose Paco. Sputò oltre la ringhiera. - Sono almeno dieci inverni che nevica sempre di più, scemo e bugiardo. - E se ne andò brontolando nella propria stanza, senza più guardare l'altro, che se ne stava controvento con le labbra socchiuse.

François entrò in camera. Inserì la chiave magnetica nella serratura slabbrata, e la porta si aprì. C'era freddo anche dentro. Decise che, una volta per tutte, avrebbe disfatto le valigie. Erano lì da un bel po' di tempo, con i sigilli di Tomorrowland ancora intatti: chissà, magari domani mi servono, meglio tenersi pronti. Estote parati. Era stato anche lui un boy scout, da ragaazzino.

Ma chi dovrebbe cercarti? Aprì le valigie, spezzò i sigilli, e ammucchiò le sue cose sul letto, la tuta, le camicie stirate per la televisione, metti che ti chiamino, da un momento all'altro bisogna correre, e poi i ritagli del giornale, le fotografie, le cassette con le registrazioni.

Mise la mano in tasca e trovò un biglietto: - Spencer & Spencer, - ventiquattresima, angolo nona. Da Spencer & Spencer aveva cambiato in soldi buoni l'ultimo assegno della base. L'inverno era venuto anche con quel biglietto gualcito.

Lo rivoltò. - Egregio comandante (comandante eh? cazzo!) le trasmettiamo l'assegno allegato, a saldo del suo credito. E' stato bello averla con noi.

Chi l'aveva firmato, quel foglio grigioneve? Mi hanno liquidato così, dopo tutto... Sedette sul letto, e le coperte frusciarono. Se l'era proprio dimenticato: piegò il biglietto in due parti, poi in quattro. - Ignazio ha ragione, - disse a voce alta. Quando sulle scale lo aveva chiamato scemo e bugiardo lui aveva sentito, in fondo a se stesso, un altro François abbassare la cresta, e ricacciare in gola la risposta che stava per venir fuori.

Era come se ci fossero due persone, in quella sua crisalide, e se ne era accorto già da un po' di tempo. Le aveva sentite crescere piano piano, gonfiarsi e andare a sbattere una contro l'altra, come due cancri concorrenti nella stessa pelle. François Uno aveva la faccia feroce del navigante: quando gli avevano detto che Tomorrowland chiudeva, e che alla base sarebbero rimasti soltanto gli scienziati della Terza sezione, quelli della ricerca pura, - meningi bollenti, - come li avevano soprannominati, era stato capace di alzare orgogliosamente la testa (sei o non sei l'Uomo del razzo?) e se ne era andato sbattendo la porta.

Ma ne aveva sbattute altre, di porte, tante porte, finché non era venuto fuori François Due, con i suoi timori e le sue meraviglie, e il suo passato così buio che nemmeno il cervello del razzo riusciva del tutto a farci luce.

François Due si risvegliava di notte con il cuore in gola, gridando. Allungava le braccia verso le pareti o il soffitto, e poi affondava le unghie nel linoleum del pavimento, come se avesse voluto sentire che lui e il mondo non erano poi così estranei, se potevano toccarsi e mordersi. A volte la sua testa non era che un palloncino gonfio di gas leggero, di una malinconia senza fondo, naturale come quella dei manichini spogliati nelle vetrine dopo i saldi, delle luci spente, degli asteroidi sparpagliati nel vuoto come foglie secche.

Il vuoto.

Del pianeta, lassù, non ricordava quasi più nulla. Come se non fosse mai esistito, anche se ogni tanto, al mattino, si risvegliava con il vomito in gola, correva nel cesso e lì, davanti allo specchio, guardava la propria bocca aprirsi e dire: - No, sono sceso, ho baciato la terra, ho affondato davvero le mani nella polvere del mio pianeta. - Poi il vomito si portava via anche quel ricordo.

Il campanello esterno suonò. Andò ad aprire. Fuori, con la faccia rigata dalla neve sporca, c'era Lilly. Teneva in mano i fiori di cartapesta.

Il razzo s'impennò, tagliò lo spazio, e scese piano nell'atmosfera del pianeta bigio.

François mandò fuori le mosche. Gli insetti elettronici ronzarono nell'aria fine, colsero campioni di ossigeno e azoto, rotearono le sfere degli occhi per fotografare i picchi e le pianure chiare. Poi tornarono, e il razzo li accolse nelle nicchie scavate a prua, nello scafo. Le informazioni raccolte corsero nel cervello.

Il razzo decise di scendere ancora. Bruciò con i getti l'erba secca della piana, e affondò le zampe d'oro nel terreno friabile. Attese. La radio interna mandò il jingle di Tomorrowland.

François guardò la valle, e i monti che la contornavano, come una corona. Batté sulla tastiera, nel ponte di comando. Qzerty. OptionS. Abort.

I getti sputarono altro fuoco, le paratie vibrarono e il razzo si sollevò lentamente, e risalì nel cielo. François sospirò, si immerse nella vasca della lunga navigazione, si sciolse piano.

I suoi riccioli chiari si allargavano sul cuscino come l'aureola di un angelo di terracotta. François l'accarezzò piano, passandole la punta delle dita sulle gote, sugli occhi, sul collo sottile, finché non la risvegliò.

Lilly restò con gli occhi socchiusi. - Perché hai venduto la macchina del caffé? - brontolò.

François si rivoltò sulla schiena e restò a guardare il soffitto. L'intonaco era screpolato, lassù, e ogni mattina sulla coperta c'erano sempre delle sottili scaglie di gesso, che si erano staccate. D'inverno, anche dai soffitti cadono le foglie. - Era una delle cose più costose che avessi, e la meno importante.

Lilly rise. - Un corno. Mio suocero è italiano, e quando è triste prende il caffé, quando è allegro anche, prende il caffé tutto il giorno. Mai far mancare un buon caffé, in casa. E' la regola.

- Di là c'è quello liofilizzato.

- Per carità... è merda.

François la guardò perplesso. E Lilly sorrise ancora, ma più secca e cattiva, questa volta, e gli andò addosso a cavalcioni sotto la coperta. - Cos'è che non va? Il linguaggio... sono diventata sboccata, forse? Ma che cos'hai dentro, cosa sei, dove sei... almeno mi avessi trattato da puttana, là davanti al teatro, e invece niente, non ti si cava niente. - Tirò via la coperta, la gettò sul pavimento e restò seduta sul letto, nuda e lontana.

François cercò ci coprirla con il lenzuolo. - Scusami, - disse.

- Scusami tu, - fece lei. - Sto cercando di fartela pagare. Sento che tu devi pagarmi qualcosa. - Si rivestì in silenzio, e andò in cucina. François la sentì trafficare nella dispensa, sentì l'odore acidulo del caffé liofilizzato e l'acqua calda che gorgogliava nel bollitore. Poi Lilly tornò con il bricco che fumava, e una sola tazza.

- Non lo bevo questo intruglio, io, - sorrise.

François invece lo buttò giù piano, a piccoli sorsi che gli scottavano le labbra.

- Com'era lassù?.

- Così. Pietre, polvere, erba secca e vento. C'è tanta erba secca, nasce secca, non ho visto una foglia verde in tutto il tempo che ci sono stato. E' un pianeta pieno di tristezza... non me lo ricordo quasi più, ormai, è come se non ci fossi stato io, ma qualcun altro... mi ricordo solo la tristezza.

L'uomo di Tomorrowland aveva un vestito grigio, a sottili righe verticali, e appena un po' stinto. Restò un attimo sull'uscio, la mano tesa in avanti, per far finta di essere cordiale, poi entrò. Guardò con interesse il soffitto sfogliato, e sorrise.

Nel bricco c'era ancora del caffé, ma l'uomo di Tomorrowland non beveva caffé, lo spiegò a Lilly, - è per via dei nervi, magari se ci fosse l'orzo... - disse, mentre teneva gli occhi fissi in faccia a François, e sulle sue mani che tremavano.

- Lei deve tornare, - disse infine.

- A dire la verità, non sono stato io ad andarmene.

- Già. E' colpa nostra. Ma questo lo sappiamo... ci siamo dimenticati di lei. Non c'erano più quattrini per certe avventure... e poi avevamo il pianeta, una cosa così grande che ci ha fatto andar fuori di testa. Ma adesso... lei deve tornare.

- Non c'è un solo motivo al mondo, perché io lo faccia.

L'uomo di Tomorrowland aveva gli occhi grigi e spiegazzati come il suo vestito, stanchi e socchiusi, come gli occhi di uno che non dorme da tempo. - In realtà, ci sarebbe qualcosa, - disse.

Andò alla finestra e fece un cenno verso il cielo pieno di nuvole, come se avesse potuto guardarci attraverso. La neve non cadeva più, ma l'aria era bianca e spessa come un lenzuolo.

- Lassù c'è qualcosa, - disse l'uomo. - Lo sa che sette mesi fa è partito un altro razzo? No, non può saperlo. Non lo sa quasi nessuno, l'hanno tenuto nascosto. E' partito e forse è arrivato, ma noi non ne sappiamo più niente. Radio, laser... niente. Lei è l'unico a sapere che cosa c'è lassù, lei c'è stato. E' l'unico che può ritrovarli. Stiamo preparando un altro razzo, a Tomorrowland.

- Tenetelo per qualcun altro. Non ci sono più razzi, per me.

- E' la nostra ultima possibilità... ci toglieranno anche gli ultimi soldi, se facciamo fiasco. Un mese al massimo, e lei potrà partire.

François scosse il capo. - No.

- Ma perché...cioè, lo so benissimo il perché, ma non ripeteremo l'errore, stavolta.

- Non è questo. Ho liquidato anche il mio orgoglio, già da un pezzo. Solo che...

François aprì le braccia, e tacque.

L'uomo di Tomorrowland non insistette. Andò verso la porta, cercò di parlare anche se non gli veniva su niente, poi crollò la testa. François socchiuse l'uscio. - Mi dispiace, - disse.

- Ci pensi. Le telefonerò, in un giorno di questi. Ci pensi, almeno.

- Ah, lo farò. Fino a farmi bollire la testa, ma non credo che cambierò idea.

In cucina Lilly piangeva in silenzio, senza singhiozzi, lacrime lunghe che scivolavano sulle gote, e solo un lieve sussulto nelle spalle magre. - Ora dimmi. C'è almeno un motivo?. - Indicò la finestra. - Abbiamo guardato tutti e due là fuori, e in alto, io e te. Perché hai rinunciato a questa occasione? I soldi, e la tua gloria di merda, e magari l'amore: c'è tutto lassù, e tu non vuoi andare a riprendertelo.

François la strinse per le braccia, con rabbia. - Non c'è niente, lassù. Torna da tuo marito domani, e dal piccolo.

- Non posso. Sei tu ad avere bisogno di me, in questo momento.

Non ho bisogno di nessuno, avrebbe voluto dirle François.

Quando è venuto il momento di uscire, di baciare la terra del pianeta e di piantare la bandiera, mi sono spaventato, ho aspettato che succedesse qualcosa, ma non succedeva niente, e alla fine sono ripartito: avrebbe voluto dirle. Ho mandato quei poveri cristi verso un pianeta che, per quanto ne so, potrebbe essere tutto finto, fatto di plastica e di cartone, e quei fili d'erba essere solo fili di ferro...

Invece tenne tutto per sé.

Povero androide mal riuscito, qualcosa non aveva funzionato a dovere lassù, e aveva lasciato un'ombra di François in quel bozzolo d'uomo. Fu un pensiero così rapido che gli traversò il cervello come un fulmine di ferragosto. Credette d'avere ricordato qualcosa d'importante, poi si smarrì.

Le labbra di Lilly sapevano di caffé (dunque ogni tanto anche tu ti contenti del liofilizzato!) ed erano così morbide. Le baciò ancora. Poi andò in camera, chiuse a chiave la porta e frugò nella valigia. Tirò fuori la pistola.

Povero androide mal riuscito: la pallottola gli si ficcò sotto il cranio, che sembrava vero, e ne uscì il sangue, rosso che sembrava vero. E' morì perfino, in un modo che sembrava vero.

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