Conobbi un re. Abitava uno scorcio di marciapiede e reggeva in capo una corona sbilenca, di cartone. Alla luce del sole o nell'ombra della sera la corona luccicava e se ne indovinava l'aguzza smerlatura punteggiata da tante piccole losanghe dorate.

Da qualche tempo quel tratto di strada esibiva -come fosse una statua o un cartello segnaletico- quella figura d'uomo in atteggiamento statico, visibilmente assorto.

Non era un pazzo, né sembrava uno di quei vagabondi che affollano le vie per elemosinare. Piuttosto un attore, poiché aveva il volto sapientemente spalmato di cerone bianco; oppure un clown, ma la sua maschera austera e l'attitudine compostamente autorevole non rammentavano una qualsivoglia recita.

La gente fingeva di non vederlo; lo oltrepassava, ignorando tutto di lui che se ne stava ore immobile e muto. Di certo qualcuno riusciva a ricacciare al fondo della propria indolenza, anche uno scampolo di umano interesse.

La mia curiosità, mista a un vago malessere, mi costrinse a osservarlo da vicino. Potevo, indisturbato, cogliere su di lui qualche segno rivelatore. Ma non vedevo altro che la sua faccia di gesso, sotto una finta aureola fatta di losanghe, e la sua lunga veste pergamenacea cosparsa, anch'essa, di losanghe dorate.

Un giorno provai a interrogarlo. Mi accovacciai davanti a lui e iniziai a parlargli.

- Posso chiederti il perché della tua maschera? - Presi fiato ed espressi un complimento spontaneo, quasi un pensiero improvviso.

- Sai che è una bella maschera? Anche la tua corona... E quelle losanghe, chissà cosa significano! Sei un artista?... Sei solo in questa città?

Domande vane, con intonazioni forse insolenti, ma senza nerbo, inefficaci a smuovere un solo muscolo di quel viso. Presto mi arresi, vinto dal suo silenzio.

Mi alzai per andarmene. La sua voce fresca, giovane e ferma giunse alle mie spalle inaspettata: - Io appartengo a me stesso, sono il re di me stesso; non ho padroni, sono libero.

Non era una risposta alle mie domande e sapevo di non poterne fare altre. Mi volsi lo stesso verso di lui per un sorriso di commiato. Ancora una volta mi sorprese dicendomi: - La tua camicia è a quadri, le losanghe appartengono a me. Qualcuno mi riconoscerà e verrà a prendermi. - Aveva "visto" la mia camicia senza aprire gli occhi ma era inutile ogni insistenza. Piuttosto, lasciai scivolare una banconota in quella sorta di piccolo utero rovesciato che serenamente stava accanto a lui.

Ripensai tutto il giorno a quell'incontro. Sorridevo per la mia piccola vittoria sulla scontrosità di quello sconosciuto che impediva un dialogo forse utile a entrambi. Ma provavo una sorta di tormentata invidia confrontando quella striscia di marciapiede con la mia soffocante stanza da lavoro: il re nella strada, sulla sua testa il cielo e le stelle; attorno a lui l'aria, la luce, il respiro del mondo.

Non mi riusciva di scacciarlo dalla mente. Lo rincontrai in sogno. Severo nella sua posa quasi inanimata, sordo a qualsivoglia stimolo verbale, sembrava avviluppato in un silenzio denso di parole. Ed era chiuso in una geometria indecifrabile.

Un uomo cosparso di losanghe... figure bizzarre che, d'improvviso, si scagliarono contro i quadrati della mia camicia. Con stupore le vidi, prima, volteggiare nell'aria, deformarsi, distorcersi e ricomporsi in uno sfarfallio luminoso creando nuove seducenti forme, giochi fantastici. Venivano a dardeggiare l'impassibilità dei miei quadrati, che si frammentavano, impazzivano ebbri, anch'essi di libertà, felici di ricrearsi, all'infinito.

Mi svegliai, erano le quattro del mattino. Non vedevo l'ora che fosse giorno per andare a trovare il re.

Era al solito posto; quieto e taciturno. Il sole pugilava violentissimo sulla mia testa mentre mi chinavo a parlargli, ma lui non rispondeva. Non potevo forzarlo, non potevo insistere. Laconicamente mentre mi allontanavo disse: - Riconoscerai la mia regina per il suo abito scuro e per i suoi cerchi. Lei è perfetta nella sua imparzialità.