di Piergiorgio Nicolazzini

e Joe Milicia

Leiber ritrovato

Torna alla luce e viene pubblicato questo mese dall'Editrice Nord un romanzo sconosciuto di Fritz Leiber: L'esperimento di Daniel Kesserich. Un'inaspettata sorpresa per gli amanti di questo autore, una dei grandi dell'etˆ d'oro della fantascienza.

Sapore d'altri tempidi Piergiorgio Nicolazzini

Certo, ma con un pizzico di straniamento riscopriamone per una volta il senso. Perché se guardiamo con affetto e un brivido di piacere questo piccolo classico, letteralmente riaffiorato dal tempo, non è per soddisfare il nostro gusto nostalgico, con il quale troppo spesso si giustificano testi ingiustificabili, ma per constatare come i sessant'anni che ci separano dalla sua stesura siano una patina sottile, che un soffio basta a dissipare, un velo finissimo come la sabbia del deserto che circonda da ogni lato il luogo dell'azione.

Scritto verso la metà degli anni '30 ma pubblicato per la prima volta solo nel 1997, Kesserich non è tale da sconvolgere il canone leiberiano, che poggia su basi solidissime (e ancor oggi d'insuperato eclettismo, a mio parere), ma certo stimola nuove riflessioni sulla capacità dell'autore di giocare, qui ancora in punta di piedi, sui territori di confine dell'immaginario, sull'esitazione che accompagna ogni esperienza con il fantastico. Qui più che altrove, il fantasma del soprannaturale è costantemente eluso per giocare sulla manipolazione della causalità, sull'invasione della mente, sulla "malattia" che contagia il reale. Ma il passo è leggero, disinvolto, a tratti consapevolmente divertito, a dispetto di qualche articolazione retorica un po' irrigidita, come quello di chi proietta lo sguardo in avanti, perché viene sospinto e guidato non dalle regole di un genere prescelto, ma dall'originalità della scrittura che sempre porta con sé la capacità di trasgredire. Scritto nel periodo della breve corrispondenza con H.P. Lovecraft (che, sappiamo, fu prodigo di elogi per l'autore de "Il gambetto dell'adepto"), Kesserich ammicca alla tradizione, ma ancor più verso territori contigui, o altri di là da venire, verso i quali nessuno aveva gettato un ponte. Nello spazio di poche, stringate pagine, i sensi del protagonista si ritrovano sollecitati dagli eventi oscuri di un paesaggio insieme reale e simbolico (come ricorda anche Joe Milicia nel suo breve intervento che segue, che ho scelto di ospitare in questa edizione italiana per alcune preziose indicazioni di background fornite di prima mano dall'editor che ha riscoperto e proposto Kesserich: David G. Hartwell); affiorano brevi e fugaci immagini, percezioni, atmosfere, come altrettante sfaccettature di una città sull'orlo del nulla - dove gli abitanti sembrano letteralmente raccolti sul palmo di una gigantesca mano calata dal cielo - che si proiettano verso il metonimico occhio di Philip K. Dick e il suo surreale sguardo sulla fantascienza degli anni '50, o ancora oltre, per esempio verso la narrativa post-dickiana di Jonathan Lethem.

Uscito dal labirinto di specchi con le stimmate di una molteplicità che altera la forma, il Kesserich di Leiber, esattamente come il suo personaggio, circoscrive l'enigma grazie alle bende che imprigionano la forma in un simulacro caricaturale di percezione, ma sotto di esse c'è una forza intatta, la coscienza di un'altra forma e della sua mutabilità, e non può stupirci se parla un linguaggio così familiare. Un'altra densità del reale, e dello sguardo che lo osserva, che non svaniscono facilmente dopo un bicchiere di punch al rum, ma rimangono come un tarlo ossessivo che attraversa nel tempo la coscienza dei generi dell'immaginario e quella dei suoi lettori.

Fritz Leiber in un film amatoriale degli Anni Cinquanta, intitolato The Genie, girato insieme a Forrest J. Ackerman e incluso nel cd-rom Forrest J. Ackerman's Museum.

Un classico ritrovato di Joe Milicia

Se consideriamo che L'esperimento di Daniel Kesserich: Uno studio sul caso di follia collettiva a Smithville è una di quelle storie in cui "finalmente-vi-racconto-come-sono-andate-le-cose", con tanto di manoscritto semicarbonizzato divulgato molti anni dopo il suo misterioso ritrovamento, è un vero piacere scoprire che il "nuovo" romanzo di Fritz Leiber è stato anch'esso ritrovato una cinquantina d'anni dopo l'originaria data di stesura.

Con ogni evidenza la versione originale venne rifiutata da Weird Tales nel 1936. Leiber ne stava approntando una revisione per Unknown Worlds, quando il pulp chiuse i battenti nel 1943; infine, dopo aver collezionato altri rifiuti fino agli anni '50, decise di accantonarlo e credette d'averlo smarrito. Ma nel 1983 o poco prima, il suo agente sottopose il manoscritto alla Tor Books insieme ad altri testi per una possibile antologia. Ma anche in quel caso la proposta non ebbe seguito, anzi se ne persero addirittura le tracce per una concomitanza di fattori: l'agente in questione si ritirò dall'attività e poco dopo morì, mentre alla fine degli anni '80 la Tor trasferiva altrove i suoi uffici. Alla fine David Hartwell ritrovò lo "scrigno" e decise di acquistare il romanzo per la Tor, ma purtroppo Leiber morì prima di poter discutere le modalità di pubblicazione. Il testo è dunque apparso per la prima volta solo nel 1995 su Omni Online, e poi nel 1997 in una bella edizione illustrata [la stessa che viene ora proposta al lettore italiano--N.d.C], uno di quei volumetti smilzi che si possono tenere con una mano sola mentre ci si trova comodamente sdraiati su un'ottomana.

Nonostante il lungo oblio, Kesserich non è certo un fondo di bottega (se non letteralmente perché solo oggi vede la luce); forse negli anni '50 venne considerato un po' démodé, e sicuramente tradisce il sapore di una narrazione d'altri tempi, per non parlare delle spider e delle gran turismo che un personaggio tiene in garage. Eppure non si tratta solo di un'opera abilmente congegnata e dall'atmosfera inquietante, ma di una variazione affascinante sui viaggi nel tempo.

All'epoca della stesura di Kesserich, Leiber era in corrispondenza con H.P. Lovecraft e, come accade in buona parte delle opere del più anziano collega, la fantascienza si fonde con la narrativa del terrore. Comunque qui i toni sono assai smorzati rispetto al gusto squisito per il sensazionalismo più acceso del Maestro di Arkham; l'unico residuo affiora all'inizio, dove si commenta l'aggiunta dei capitoli finali che offrono "una spiegazione orribilmente plausibile laddove prima c'era solo un inquietante enigma". La scrittura di Leiber singolarmente si discosta anche da quell'esuberanza fantasiosa e un po' gaglioffa - peraltro non scevra da cupi toni lovecraftiani nel finale - che avrebbe contraddistinto "Il gambetto dell'adepto", la prima storia di Fafhrd e del Gray Mouser, chiaramente scritta nello stesso anno di Kesserich (e anch'essa pubblicata con ritardo, nel 1947). Forse l'influenza di H.G. Wells, del suo viaggiatore del tempo e di altri protagonisti-scienziati, spiega la narrazione relativamente asciutta di Kesserich.

Incorniciata da una Premessa e da un Poscritto, la struttura del romanzo è classica: uno scrittore, amico di uno scienziato che definire "eccentrico" è poco, si rivolge ai lettori e racconta l'agghiacciante esperimento di quest'ultimo. In effetti, la storia riguarda tre compagni di college, due dei quali si sono trasferiti a Smithville, California (non troppo lontani da "quel focolaio di culti e stupide religioni alla moda parlo di Hollywood", come osserva il reverendo Ferguson). Il narratore, George Kramer, si reca a Smithville e scopre che entrambi i suoi amici sono scomparsi, quindi si trova coinvolto in una strana serie di eventi e comincia a temere che la gente del posto ne attribuisca a lui la responsabilità (torna alla mente la Melanie de Gli uccelli di Hitchcock, anch'esso ambientato in una cittadina della California dove accadono cose strane). Smithville è una località situata esattamente sull'orlo del nulla: "Abitando in città, ero affascinato dall'immagine della via principale che finiva all'improvviso nel deserto. Credo che il fatto di vivere a New York mi avesse segretamente convinto che tutte le strade proseguissero all'infinito, e se proprio andavano a finire da qualche parte, allora lì c'era un palazzo o un fiume. Questa invece finiva dritta in un oceano di sabbia e cespugli e lì si fermava". Nel suo incerto girovagare per Smithville, Kramer è come in Hawthorne l'innocente che attraversa un paesaggio simbolico e "s'imbatte" in una serie di luoghi sinistri e di eventi drammatici: un processo in tribunale, una scena isterica di fronte a un'impresa di pompe funebri, una funzione religiosa interrotta, un cimitero. Passeggiando, vede apparire "sulla destra la presenza incombente della casa di John Ellis [l'amico scomparso], nera, angolosa, avvolta dal mistero", e d'impulso decide di bussare alla porta. E l'evocazione di Smithville come un perturbante paesaggio onirico è forse l'aspetto più riuscito della vicenda.

Kesserich non risparmia le tipiche giustificazioni delle storie del soprannaturale, dove per ogni stranezza c'è una spiegazione ("Non si può negare che in quella circostanza avessi bevuto un bicchiere di troppo" è la mia preferita). In questo caso, visto che si tratta di una storia di fantascienza, la spiegazione è scientifica, ma vale la pena di notare che la causa (come i successivi paragrafi in parte svelano) è più angosciante dell'effetto.

Le storie sui viaggi nel tempo giocano tipicamente sul paradosso, ma c'è un ulteriore paradosso insito nel processo di scrittura che accomuna Kesserich alla maggior parte delle opere scritte dopo La macchina del tempo. Da una parte, il viaggio nel tempo fra tutti i tropi della fantascienza è sempre stato considerato come il più fantastico e il più refrattario all'estrapolazione scientifica (ovvero, per adattare il famoso commento infastidito di Jules Verne a proposito di H.G. Wells: "Fatemi vedere questa macchina del tempo. Ditegli di tirarla fuori"). Eppure (o proprio per questo), gli scrittori che fanno scivolare nelle loro storie sistemi di iperpropulsione e di comunicazione istantanea da un punto all'altro della Galassia senza una riga di commento sono poi gli stessi a dilungarsi in meticolose spiegazioni "scientificamente" fondate sugli effetti provocati dal viaggio nel tempo sulla forma e sulla struttura della realtà. Fin dalle storie di Heinlein (e da quelle dello stesso Leiber sulla "Guerra del Cambio"), attraverso film come L'esercito delle 12 scimmie e il coraggioso seguito alla Macchina del tempo di Stephen Baxter (L'incognita tempo), gli scrittori possono dedicare più o meno attenzione ai vari congegni temporali, ma certamente amano dilungarsi sulle complesse implicazioni legate alla manipolazione della causalità (oggi si può addirittura acquistare un manuale della Writer's Digest su come scrivere in modo plausibile un romanzo o un racconto sui viaggi nel tempo: "Con questa guida" si legge sulla quarta di copertina, "uno scrittore può intraprendere un viaggio nel futuro munito di un solido bagaglio teorico e imparare a viaggiare nel passato senza violare le leggi fisiche").

Come molti suoi colleghi, Leiber tenta un'elaborazione "logica" di alcune delle implicazioni alla base di un viaggio fantastico come questo. L'originalità del suo contributo al genere (almeno, per quanto ne so) sta nell'idea che quando si viaggia a ritroso nel tempo per modificare un evento, il presente non si trasforma istantaneamente in qualcos'altro ma cambia in modo graduale. Quindi, se a una donna morta martedì s'impedisce di mangiare un certo frutto avvelenato, lei continuerà a restare morta almeno fino a giovedì, mentre coloro che l'hanno seppellita mercoledì cominceranno a ricordare di aver notato un lieve rossore sulle guance Dunque Kramer, che vaga alla ricerca di "indizi che continuano a sfuggirgli", comincia ad avere la sensazione che la realtà stia cambiando davvero, che le cose modifichino il loro aspetto quasi davanti ai suoi occhi (pensate a Philip K. Dick!). Il quaderno di Kesserich allude all'effetto vertiginoso di una mise en abyme, allorché due specchi proiettano la stessa immagine all'infinito (presumibilmente una caratteristica tipica della nostra iperreale epoca postmoderna). Il viaggio nel tempo di Kesserich è un tentativo di avventurarsi dentro quegli specchi infiniti, dove non c'è solo il pericolo di perdersi ma di tornare indietro con addosso un po' di quella molteplicità.

A proposito della donna avvelenata, una delle stranezze del romanzo, per non parlare di paradosso, è il fatto che seppur la vicenda sia centrata su di lei almeno quanto sul viaggio nel tempo, il lettore non riesce mai a vederla in faccia, anche se in una scena si trova letteralmente dietro l'angolo. La sua presenza aleggia sull'intera Smithville, e tre uomini sono pazzamente innamorati di lei; Kramer è l'unico personaggio (oltre a un barista di New York) che non riesce mai a vederla, se si esclude la vaga e assurda testimonianza nella quale dichiara di aver notato "una sagoma inerte - non saprei dire se viva o morta - accucciata nel sedile accanto al guidatore [dell'auto da gran turismo]. Anche se non saprei trovare una ragione valida per affermarlo, a me parve quella di una donna". Qualche studioso potrebbe forse analizzare più a fondo quest'esempio di donna invisibile, silenziosa, sulla quale convergono le ossessioni di molti uomini, ma che sfugge completamente al lettore.

Un altro paradosso di Kesserich scaturisce dai "pericoli della scienza", dall'auspicio che il mondo non ripeta mai più la scoperta potenzialmente catastrofica dello scienziato. In questo caso, Kesserich affida a Kramer il compito di raccontare ai lettori la sua storia, perché "nessuno ci crederà mai, dico mai!" D'accordo, i dubbi rimangono, ma intanto siamo lieti che questa storia, viaggiando su una minuscola macchina del tempo, sia finita proprio nelle nostre mani.

Copyright 1997 by Joe Milicia. Pubblicato per gentile concessione dell'autore e di The New York Review of Science Fiction. Traduzione di Piergiorgio Nicolazzini. Entrambi i testi pubblicati per gentile concessione dell'Editrice Nord.