Delos 29: Racconto: Luce di rettile racconto di

Andrea G. Colombo

luce di rettile

Qualcuno si chiederà: perché Forte ha deciso di pubblicare questo racconto? Non è di fantascienza in senso stretto (ma forse neppure largo), non è il massimo dell'originalità, è scritto bene ma non si sente certo la penna del grande scrittore. Allora perché? La risposta è una sola: mi è piaciuto. Ha saputo toccare delle corde dentro di me come non accadeva da tempo, corde recondide, che difficilmente un testo stampato riesce a sollecitare (ormai neppure King è più in grado di farlo). Ecco la risposta, e per una volta credo che basti. (Franco Forte)

I

Dolore, dapprima. Solo dolore per attimi innumerabili e bui. Niente IO, niente PENSIERO, solo MALE, NAUSEA, VERTIGINE. Poi, lenta e sfilacciata come un sole velato da spesse nubi novembrine, fa capolino la CONSAPEVOLEZZA. Percepisce odori pungenti. Punture di aghi. Lontani vocalizzi strazianti. Il tutto dura pochi secondi: una ventata gelida strappa le nubi, i timidi raggi della sua coscienza tiepida cadono a brandelli ed è ancora...

II

... buio, anche dopo aver riaperto gli occhi. Quanto tempo è rimasta svenuta, questa volta? Impossibile dirlo. Il tempo è qualcosa di diurno, scandibile solo dalla qualità della luce, poi si dilata fino a perdere significato quando essa scompare. Minuti gonfi come corpi di annegati durano ore, giorni. Tenta di muoversi, di risalire la china ripida della fossa in cui il dolore l'ha seppellita, ma al primo accenno di ribellione stiletti incandescenti le penetrano nella carne e nei muscoli scalfendo le ossa. Pazzesco. Insopportabile. Tornano le vertigini, le orecchie fischiano come sirene e poi, di nuovo, le nubi.

III

Lontane. Come in un'altra stanza. Urla.

Sta sognando? No, si è svegliata da qualche tempo riemergendo lentamente dall'incoscienza come un pesce rosso passato a miglior vita nella sua boccia di vetro. Ora è lì, pancia all'aria, a galleggiare inerte sulla superficie torbida dei suoi sensi. La gola secca, come rivestita di carta porosa e ruvida. Il dolore, ovunque, simile a un parassita tenace. E quelle urla terribili che risuonano quasi a intervalli regolari infrangendo il silenzio statico che la avvolge. Per la prima volta si chiede da dove provengano. Forse da una stanza vicina... STANZA. Si rigira quella parola nella mente come un minerale dall'origine sconosciuta da esaminare con estrema attenzione. Difficile pensare, ma non impossibile, anche con tutto quel dolore e quelle nuvole lattiginose che velano il cielo.

Lei si trova in una STANZA?

Probabile. Possibile. Ma in quale STANZA, di quale EDIFICIO? Non ricorda, gli unici punti fermi sono il dolore e

AAAAAARRRRRRGGGHHHHHHH (molto forte al di là del muro)

le urla.

Qualcosa con parecchi denti inizia a rosicchiare il guscio di convalescente placidità che l'ha protetta sino a quel momento, e ogni scaglia divelta scopre carne viva e sensibile sulla quale prende a gocciolare un bruciante distillato di ansia.

AAAAAARRRRRRGGGHHHHHHH, di nuovo, splendente come una fiammata. Agghiacciante.

La pelle le si accappona, un unico brivido l'accarezza in modo osceno. Tenta di alzarsi, ma solide cinghie le inchiodano il petto, l'addome, le gambe. Legata! L'hanno legata! Sgrana gli occhi, dilata le narici, il suo respiro accelera. Un ricordo spintona frenetico facendosi strada nella sua memoria. Corridoi lunghi e verdastri, camere come celle sudicie, infermieri violenti ed esigenti, le cinghie con cui la legavano al letto durante la terapia, le notti passate a sudare e sbavare e sbraitare implorando una dose di roba e di libertà. Scuote il capo per scacciare quelle immagini, ma l'unico risultato che ottiene è una sferzata di dolore che la lascia boccheggiante, con gli occhi strizzati e la fronte fradicia di sudore.

Cristosanto, come ci è finita ancora in clinica? Non ricorda di essere stata ricoverata e lei di sicuro non ne ha avuto l'intenzione, dato che l'ultima esperienza le è stata molto più che sufficiente. Ma allora come... Un momento, un momento! Frammenti d'immagini e suoni le sfrecciano davanti come comete creando un inestricabile groviglio di scie luminose. Si sforza di agguantarne almeno uno nella speranza di riuscire a ricostruire il quadro generale. Ecco: lo afferra, poi gli sfugge, ritorna velocissimo e lei gli si aggrappa ostinata, serrando occhi e mandibole per evitare che gli scappi fuori.

Ora ricorda...

IV

Il solito vicolo, odore di fogna, di piscio e rifiuti. Vanni l'aspetta con la schiena appoggiata a un portone in penombra, la solita sigaretta in bocca, l'impermeabile scuro lungo fino alle caviglie. Sembra il vampiro di un vecchio film in bianco e nero. Lo saluta. Il vampiro fa altrettanto e le chiede 'comeva'. Gli risponde 'benegrazie'. Vanni scaglia un'occhiata furtiva ai due estremi del vicolo, lei lo imita. Nessuno. Prende i soldi e glieli fa scivolare nella mano bianchissima. Pausa. Tiro di sigaretta. Un'auto frena poco lontano. Spegne il motore. Portiera aperta e richiusa. Lui conta i soldi come farebbe un bancario seduto al suo lindo sportello di cassa quindi solleva gli occhi castani e troppo furbi e le rifila una mezza smorfia che le fa subito sentire puzza di qualche problema. 'Dai, dammi la roba' gli dice nervosa, ma lui scuote la testa e i capelli lunghi gli scivolano dalle spalle. 'Non bastano' pronuncia il Vampiro. Passi in fondo al vicolo. Lei capisce che ormai non si parla più di soldi, ma di cose che di solito si fanno con pochissimi abiti addosso. Si arrabbia, dice 'nonfarelostronzo' e 'dammilaroba'. Lui continua a sorridere e a scuotere il capo. Lo afferra per l'impermeabile e gli ordina di passarle quella cazzo di dose. Vanni non sembra reagire, anzi, la stringe a sé tentando di baciarla sulle labbra. Questa volta è andato oltre. Tenta di divincolarsi, ma non ottiene altro che eccitarlo ancora di più. Non ha molte possibilità: gli pianta le unghie nella guancia e graffia a sangue. Vanni caccia un grido e la lascia andare, ma contemporaneamente fa partire un pugno che le piomba come un pullman sulla bocca. Vacilla. Qualcosa dietro le gambe. Cade. Batte la testa. Un lampo accecante di dolore. Tutto le gira attorno. Vanni le si avvicina, le dice qualcosa che suona come 'troia', poi lo vede guardarsi alle spalle e quindi fuggire nella direzione opposta. I suoi stivali sull'asfalto, sempre più lontani. Altri passi che si avvicinano. Poi più nulla.

V

Tutto lì, non c'è altro. Solo qualche se, qualche forse.

Già, forse l'aveva trovata una pattuglia della polizia, forse avevano pensato di non farsi i cazzi propri e l'avevano riportata in clinica.

In clinica...

Sente un peso premerle sul torace, cerca d'inghiottire aria, ma i polmoni sono rigidi come se fossero di alluminio e riesce solo ad ansimare come un cane zoppo dopo una fuga disperata. L'idea di essere finita ancora in quel lager le fa venire voglia di vomitare, le annoda i pensieri in una matassa confusa e pulsante facendole rimpiangere l'incoscienza di poco prima.

Eppure qualcosa non torna.

L'odore che percepisce è cattivo e pressante come quello che infestava i locali dell'ospedale, d'accordo, ma in esso non avverte quel substrato pungente di disinfettante e medicinali. E poi c'è troppo buio in quella STANZA, un'oscurità quasi palpabile, mai stemperata dal riverbero di una luce esterna, quasi che i vetri delle finestre fossero stati dipinti di nero.

O come se non ci fossero affatto finestre.

Senza preavviso, lo sconforto e la rabbia che le vibrano dentro si raggrumano in un coagulo freddo al centro dello stomaco, un fiotto di saliva amara le riempie la bocca costringendola a deglutire con una smorfia di disgusto.

Deve sapere, non può farne a meno, deve cercare di capire dov'è finita esattamente, carpire qualche dettaglio del patetico cosmo che la circonda. Solleva la testa - pesa una tonnellata, la sentiva così leggera eppure ora è come se contenesse piombo - e poi le spalle per quanto le consentano le cinghie.

Il letto emette un unico cigolio secco. Gnek!

Si blocca atterrita senza nemmeno sapersi spiegare il perché, congelata in quella scomoda posizione. I tendini del collo tesi come i cavi metallici di una tensostruttura. Vibrano.

Poi li sente. Passi. Si avvicinano.

Rivede di fronte a sé - come nel buio della sala di un cinema - il vicolo sudicio, lei stesa per terra e un'ombra che le si allunga addosso mentre scivola nell'incoscienza.

Qualcosa di molto simile alla paura le serpeggia fra le vertebre.

I passi si fanno più vicini, incedono senza fretta e all'altezza della sua STANZA si spengono. Lei fissa il vuoto nero in quella direzione. Le giunge un rumore metallico del tipo chiave-serratura-maniglia, poi una luce abbagliante le innaffia le pupille atrofizzate come un liquido urticante. E' una torcia. Lei chiude gli occhi e volta il capo mugolando. Si sente indifesa, a occhi chiusi. Li spalanca sollevando le palpebre in maniera violenta. Adesso la luce è accanto al letto.

"Vedo che ti sei svegliata, finalmente." Una voce ruvida, cadenzata e profonda, la 'esse' pronunciata con un sibilo da rettile (ti sssei sssvegliata...).

"Dove... dove mi trovo?" riesce a pronunciare a fatica, le labbra tumefatte e doloranti per il pugno di Vanni. Biascica un po' e si maledice per quella figura patetica. Odia mostrarsi debole, soprattutto con gli infermieri.

Dal nuovo arrivato nemmeno una parola. La luce è fissa nei suoi occhi come una spina acuminata.

"Mi ha sentito? Le ho chiesto dove..." deglutisce, "dove mi trovo. Chi mi ha portata qui?"

AAAAAARRRRGGGHHHHHH, dall'altra parte del muro, corde vocali che risuonano al limite della rottura.

Non le piacciono quelle urla. Non è normale che in una clinica lascino gridare così un disgraziato in piena crisi. Sbagliato. E inquietante. La innervosiscono, le fanno venire voglia di mettersi a sbraitare lei stessa, di ordirargli di smetterla, di lasciarla tranquilla perché ora ha ben altro a cui pensare.

"Ti dà fastidio quando grida?" arriva la voce dell'uomo con tono distaccato, da conversazione meteorologica in ascensore.

Lei trattiene il fiato per una frazione di secondo. Si sente come se le avesse letto nel pensiero, e quella violazione la rende ancora più nervosa. "Perché urla a quel modo? Perché non lo fate tacere? E... e le luci? Non va la corrente? "

All'improvviso la torcia si spegne, il buio dilaga e lei si azzittisce all'istante chiedendosi febbrilmente cosa cazzo stia facendo quell'uomo, perché le luci siano spente, perché lei sia lì e - soprattutto - dove sia . Gli occhi frugano l'oscurità che la circonda, la gola serrata.

Un lieve spostamento d'aria alla sua destra.

"Sei stanca."

(ssstanca)

Volta il capo e la luce le riesplode giusto davanti alla sua faccia. Istintivamente tenta di arretrare, ma le cinghie la inchiodano al suo destino. Qualunque esso sia.

"Devi riposare, si vede che sei ancora esausta. Poi parleremo."

Parlare? Di cosa cazzo devono parlare? Non va bene, oh no, continua a non andare bene. Sta per chiedergli spiegazioni quando, sotto la luce fredda della torcia, coglie un balenio familiare. La riconosce subito, come non potrebbe? Una siringa. "Cosa... cos'è quella?" chiede con una voce distorta che quasi stenta a riconoscere, le mani aggrappate al lenzuolo umido.

"Una siringa," risponde divertito lui.

Questo la fa incazzare. "Non fare lo stronzo, hai capito benissimo che cosa intendevo dire. Dimmi che c'è lì dentro."

"E' quello di cui hai bisogno per stare meglio, quello che ti affanni tanto a cercare. La tua unica luce. Per ora."

Metadone, le suggerisce dapprincipio l'abitudine, poi metabolizza le altre parole che ha appena udito sibilare e l'idea di farsi infilare un ago nel braccio da quell'uomo le appare improvvisamente terrificante. "Aspetta, aspetta ti prego, voglio sapere cosa stai facendo, io voglio sapere..." ma lui non l'ascolta, è come se nemmeno esistesse. Sente la nausea riempirla come schiuma, il cuore saltarle nel petto. Non va bene, tutto sbagliato. L'ago ammicca sulla sua pelle candida. E' un attimo, nemmeno il tempo di tentare una reazione che scompare sotto la cute. Una goccia rossa si gonfia attorno al metallo, brucia, brucia, Dio come brucia, la goccia scivola nell'incavo del gomito e cade macchiando il lenzuolo. Lei alza gli occhi verso la fetta di buio dove dovrebbe esserci il viso del Rettile. "Chi sei? Che cosa c'è nella siringa? Ho il diritto di saperlo!"

"Dovresti immaginarlo... la tua luce, no?"

Non riesce a capire. La testa inizia a girarle, sempre più velocemente, un fischio lontano, colori dal giallo all'indaco, mille sapori, la luce ondeggia di fronte a lei nell'oscurità compatta.

"Starai bene," sibila una voce lontana, "poi parleremo e capirai. Capirai tutto, finalmente."

finalmente finalmente finalmente, riecheggia attorno a lei. Se ne sta andando alla deriva, viaggia, scivola veloce trascinata da correnti potenti.

Parleremo. La tua unica luce. Capirai. Finalmente.

Poi le nubi. E di nuovo, il nulla.

VI

Io sono la Luce capisci?

AAAAAARRRRGGGHHHHHH!

Gira su se stessa, l'aria è

Io sono la tua salvezza, devi ascoltarmi...

tiepida, soffice. STANZA, c'è una stanza attorno a lei? No, è libera

Lasciami andare figlio di puttanaaaarrrggghhhhhhh!

di volare come sa fare, come ha già fatto tante volte, alta e leggera come un uccello.... non puoi andartene, non sei ancora pronto, devi capire, prima, aprire gli occhi sul mondo, ricevere la LUCE.

Oddio! Qualcuno mi aiuti!

Aiuto luce parleremo capirai. Parole rotonde che rotolano nel suo cranio, rimbalzano, la urtano mentre altre urla la inseguono, come prima, come nella STANZA, sta volando ma è ancora nella STANZA, ancora nel buio...

TU DEVI ASCOLTARMI!

... il rettile. Sì, c'era un rettile insieme a lei nel buio di una vita passata. O di una futura? Non ricorda, non riesce a riordinare i frammenti del suo sogno. Il volo si fa stentato, appesantito dalla zavorra di quel ricordo che come un macigno la trascina verso il suolo e ora gira gira gira sempre più veloce, sempre più in basso, verso la STANZA.

Verso il rettile.

VII

Il mondo ha smesso di ruotarle attorno da almeno cinque minuti, ma è come se ci fosse ancora inchiodata, su quella giostra impazzita. Si sente malissimo, immersa in un bagno di sudore gelato e dall'odore acido, i muscoli indolenziti come se avesse appena finito il trasloco di un'intera fonderia. Dalla pelle a contatto con le cinghie che la legano al letto le arrivano fitte atroci. Immagina di essersi procurata delle brutte escoriazioni mentre viaggiava. Immagina perché non può vederle.

Non può vedere un cazzo di niente in quel buio.

Ma sente, quello sì, l'udito le funziona benissimo e i suoi timpani percepiscono nitido il soffio di un respiro dietro la porta.

E' lì da quando ha ripreso coscienza. Forse anche da prima. E - detto una volta per tutte - la cosa non va affatto bene. Se la massa compresa fra le orecchie non le facesse così male, forse riuscirebbe a ragionare meglio e metterebbe tutti i tasselli di quel puzzle al giusto posto invece che lasciarli sparsi alla rinfusa nel suo cervello.

Ma come puoi pensare razionalmente quando sei ridotta schiava dei bisogni primari e delle urla disperate del tuo corpo dispotico? Fame, sete, mal di testa, mal di schiena, vescica gonfia, reni in fiamme, pressanti richieste di aiuto da ogni singola cellula. E tu non puoi fare niente. Ferma, immobile, legata, impaurita. Inerme.

L'ha detto. Quella è la parola. INERME. Realizza veloce le implicazioni di quel concetto e - effetto scenico degno del miglior film di serie Z - il respiro che sente al di là della porta s'intensifica, cresce a dismisura come se ci fosse un bisonte là fuori e non un essere umano. Sotto lo stimolo dell'adrenalina i tasselli abbandonati sul pavimento lurido della sua mente iniziano a muoversi con velocità sovrumana, collimano, compongono la situazione d'insieme. Lei si aggrappa al letto, sconvolta dalla furia di quel lavorio, atterrita dall'inconscia intuizione della realtà. Annaspa. Stringe le cosce per resistere allo stimolo di urinare.

Oddio, oddio.

La maniglia. Cigola.

Diosantissimo.

Volta il capo verso la porta. Sta per pisciarsi addosso. Non pensa più. Tutto immobile e silenzioso nel suo cervello. Lentamente, una luce biancastra disegna la sagoma rettangolare dell'uscio. In mezzo, una figura nera come ritagliata da una mano incerta.

"Ciao." Il rettile. Varca la soglia e chiude la porta. Il rettangolo luminoso scompare.

Passi sicuri verso di lei, come se quell'uomo avesse capacità feline e vedesse alla perfezione anche in quel buio ossessivo, poi un lampo la acceca. Nessun giallastro neon ospedaliero, sempre e solo quella torcia.

Una torcia. Una stanza perennemente buia.

Oddio.

"Ti senti meglio? "

(sssenti...)

Non risponde. Una vocina lamentosa dentro di lei - terribilmente simile al piagnisteo cronico di sua madre - le suggerisce che niente di quello che ha da dire potrebbe interessare all'uomo.

A conferma di quella tesi il rettile dice: "Penso che tu stia bene, sì, lo penso proprio..." lascia la frase in sospeso senza completarla, poi espira rumorosamente come per sottolineare il concetto. Si avvicina al letto. Illumina le cinghie. Una mano s'immerge nella pozza di luce e saggia la solidità delle fasce di cuoio. Dita lunghe, unghie curate e pulite. Diverse cicatrici circolari sul dorso.

Bruciature di sigarette. Ne ha una anche lei sul braccio. Un incidente. Una dozzina di bruciature possono essere un incidente? "Perché..." la voce le si spezza in gola, respira a fondo e riprova, "perché mi trovo qui? "

Il Rettile soffia la parodia di una risata che ristagna a lungo nell'ari, ed è come se la temperatura precipitasse di una decina di gradi.

AAAAAAAARRRRRRGGGHHHHHH... dall'altra stanza.

"Ma chi è che continua a gridare?" chiede tutto d'un fiato. "Perché urla? Che cosa gli hai fatto? Che cosa vuoi FARMI?"

"Io non voglio farti nulla, così come non ho fatto né farò nulla a lui. E' il mondo che vi ha fatto qualcosa. Ti ho trovata stesa sull'asfalto sudicio, come un animale, ferita nel corpo e nell'anima. Ti ho portata via con me, curata e nutrita. Che cosa ha fatto invece questa società per te? Puoi dirmelo? Ti ha masticata, non ti ha trovata di suo gradimento e ti ha sputata. Sei un boccone rancido per il mondo, mia cara, ci hai mai pensato?"

Lei fissa il buio dietro il cerchio di luce abbacinante. Un dolore sordo le batte in testa, un metronomo che scandisce il ritmo della sua angoscia. Cerca qualcosa da dire, in fretta, scartando opzioni ed esaminandone di nuove, sempre più veloce, furiosamente. Inizia a balbettare suoni senza significato tanto per riempire quel silenzio insostenibile.

Masticata e sputata. Masticata e sputata.

"Io... io non..."

"Oh, sì, invece, tu sei uno scarto e sai perché?" L'aria fra loro è come se fosse solcata dalle scariche elettriche di un arco voltaico. "Perché non hai avuto una luce che ti guidasse là fuori. La luce della comprensione che solo una mente eletta può darti, mia cara."

La torcia ondeggia e si muove di lato, sciabolando il vuoto. Lei s'immagina il rettile con le braccia spalancate, immobile come un cristo in croce.

"La luce, capisci?" Voce un po' più alta, un po' più stridula. Un po' più folle. "Io sono quella luce. IO SONO LA TUA LUCE!" conclude ruggendo.

Un urlo disperato si leva dalla stanza accanto, a fare da contrappunto a quella affermazione.

Lei muove a scatti le pupille, deglutisce a vuoto, il sudore sul labbro, sulla fronte, sulla schiena, un tremore incontrollato e balbettii di neonato sulla bocca.

"Tu imparerai, mia cara."

Ancora un urlo dall'altra stanza.

"Starò qui insieme a te a insegnarti notte e giorno...

(... non puoi andartene, devi capire prima...)

(... io sono la tua luce...)

(... devi capire...)

finché non avrai imparato."

Aria incandescente nei polmoni, ODDIO, le mani si aprono e chiudono convulsamente, il cuore, BUMBUMBUM, pazzo, ormai, pesante come una pietra, la vescica cede, calore umido tra le gambe, NO...

AAAAARRRRRGGGHHHHHH, altissimo.

"Notte e giorno. Io e te. Perché tu alla fine..."

Notte. Giorno. Buio. Rettile. Luce. Aria.

DIOMIO!

"... capisca."

Due urla adesso, altissime e folli e disperate, un ragazzo e una ragazza, insieme. Ora e per sempre.

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