Su questa parabola del potere mi soffermo separatamente.

"La storia della fantascienza" scrivono Scholes e Rabkin in un loro saggio "è anche la storia di come l'umanità ha cambiato atteggiamento di fronte allo spazio e al tempo"

Visita al padre è un racconto di fantascienza per questo, è un racconto che ci narra del mutato atteggiamento dell'uomo.

Visita al padre è un racconto che a molti è sembrato essere un racconto mainstream che Aldani si ostinò a voler far passare per SF.

La fantascienza, come dichiara Aldani nell'intervista che presentiamo in questo numero, è presente nel racconto come retropensiero. Visita al padre è un forte esempio di pensiero fantascientifico. E' fantascientifico, come dichiara Aldani anche in un'intervista rilasciata a Domenico Gallo, il fatto che un bambino non sappia più distinguere una lumaca da una lucertola, o un salice da una quercia... che un padre riconosca obiettivamente brutto il proprio figlio. "Non sono io" lascia detto Aldani a Gallo, "che ho inventato l'alienazione, la perdita di ogni punto di riferimento. Non sono io che ho inventato questo spossessamento dell'individuo, l'insecuritas dell'uomo che non è più padrone della propria storia. Che cosa hanno a che fare gli astronauti e le loro avventurette spaziali con i problemi del nostro tempo?"

Per questo molti dei personaggi di Aldani sono schizofrenici e più o meno soggetti all'alienazione sociale. E' la malattia del nostro tempo, è la presa di coscienza necessaria senza la quale sarebbe impossibile ogni idea di cambiamento o di rivoluzione.

Adesso è ora di finirla, non che abbiamo finito con Aldani, ci ritorneremo. Ma forse può bastare quanto detto finora a dare un'idea dell'universo intellettuale che ci propone Aldani.

Una cosa da cui non posso esimermi prima di chiudere, è accennare a Quando le radici. Si tratta di un'opera che Io non ho mai potuto leggere.

Quest'opera mi appare comunque significativa, molto importante per il discorso che Aldani sta portando avanti per tutta la durata della sua vita. O, quanto meno, importante mi appare quanto lui ebbe a dire a proposito di questo romanzo:

"La verità è che l'alienazione di cui soffre il protagonista del mio romanzo è molto meno schematica di quanto possa apparire ad un esame sommario. La vera e più profonda alienazione di Arno (il protagonista, N.d.A.) al di là dell'insopportabile vita nella megalopoli o nell'emarginata cellula rurale in cui s'illude di trovare rifugio, è un'alienazione di natura estetica, nel significato etimologico e kantiano che ha questo termine, vale a dire di qualcosa che appartiene alla sensazione. Arno è il tipo esasperato dell'intellettuale umanistico, un uomo di cultura che certo somiglia più al Ronquetin della Nausea di Sartre che non agli eroi positivi della science fiction. Ha masticato troppa letteratura e pertanto ogni sua sensazione gli si guasta sul nascere, perché è subito mediata e resa inautentica dal ricordo di una lettura o dalla comparazione ad un'immagine letteraria. Di qui la ricorrente ironia delle tematiche di Lorca o di Hemingway, in uno sciocco ed inutile tentativo di voler prendere le distanze. Tant'è. Si rifiutano con giusta ragione le emozioni vicariamente vissute, ma da quelle non ci si può liberare per quanti sforzi si facciano. Di qui il fastidio, la nausea, il senso d'impotenza e quindi il soffrire.

"C'è un punto chiave nel romanzo, ed è dove Arno dice: Se un uomo legge un migliaio di libri è fottuto."

Mezzo secolo mi separa da Aldani, eppure tante idee, un intero universo di sensibilità, di sogni, mi avvicinano a uomini come lui o Curtoni. Perché tante cose ce le hanno già strappate, tante cose proprio in questi ultimi 50 anni, ma, credetemi, alcune cose non ce le potranno mai strappare e ce le portiamo dentro ovunque nasciamo.

E con quelle quattro cose in croce ci tocca sperare e ricominciare la rivoluzione.