Delos 26: Memories of green Memories of green

di Vittorio Curtoni

sf? no, fs!

Non sappiamo se Delos sia entrato nella storia della fantascienza italiana, ma sicuramente la storia della fantascienza italiana è entrata in Delos. Vittorio Curtoni, mitico direttore della mitica rivista Robot, ha accettato di portare sulle nostre pagine una collezione di gustosi aneddoti del fandom e dell'editoria italiana. Ah, per sua volontà, il sottotitolo di questa rubrica è "i farneticanti ricordi del vecchio Vic". Almeno sapete cosa aspettarvi...

Se qualcuno di voi, come suppongo accada, si lamenta di com'è conciato oggi il servizio ferroviario in Italia, e se magari è un giovane ventenne, non ha proprio idea di come si viaggiasse una trentina di anni fa. Diciamo nel periodo tra il 1965 e il 1967, quando la prima, colossale ondata di fandom invase la nazione forgiando le future sorti e progressive della nostra fantascienza. Un'ondata della quale io sono stato una delle colonne (modestia a parte, anche se per tanti versi non è che siamo stati poi così brillanti). Della genesi e delle motivazioni del movimento storico del fandom parlerò in futuro; oggi vorrei raccontarvi dei nostri treni...

Probabilmente, nel nostro impeto d'amore per il futuro, eravamo diventati senza rendercene conto adepti del futurismo. Avevamo mitizzato il concetto di movimento. Ci spostavamo di continuo di qua e di là, da un capo all'altro dell'Italia, viaggiando su quei treni scassatissimi che avevano ancora i vagoni di legno, ignoravano l'alta velocità (il che forse non è, tutto sommato, un gran male), e consideravano l'orario ufficiale delle ferrovie una sorta di chimera molto in linea con le nostre tensioni fantascientifiche.

In quei tre anni sono state organizzate un'infinità di riunioni nelle più svariate sedi. Trieste, col suo Festival del film di fantascienza, è stato un importante punto d'incontro annuale (e lì si poteva contare sulla presenza di indigeni come Fabio Pagan, Mauro Gallis, Gianfranco Battisti, Gogo Tao Carrara, Leandro Lucchetti); ma si sono tenute riunioni a Milano (dove operavano Luigi Naviglio, Antonio Bellomi, Luigi Cozzi), a Torino (con lo storico tandem Riccardo Valla/G.L. Staffilano, fiancheggiato da Diego Gabutti), a Massa Carrara (col caro vecchio Carlo Bordoni e Manrico Viti), a Firenze (dove non ricordo proprio chi ci fosse!), a Piacenza (dove ovviamente agivo io), eccetera. Dovete tenere presente una cosa: a quell'epoca non esistevano conventions nazionali, e soprattutto la fantascienza era relegata nel più bieco dei ghetti. I film di sf uscivano in sordina; dire che si leggeva o si scriveva fantascienza equivaleva all'essere presi per sottosviluppati mentali.* Eravamo una sorta di carboneria o massoneria per nulla segreta ma molto, molto smilza, e assolutamente priva di potere.

Nessuno di noi aveva contatti con comuni, enti del turismo, eccetera. Se li avessimo avuti, proporre qualcosa all'insegna della sf avrebbe significato lo sbeffeggio più bieco. Per tanti versi, eravamo proprio gli idioti della situazione. Il che, ritengo, è stata la molla segreta che ha spinto tutti noi a questo forsennato dinamismo ferroviario: sentivamo la necessità di ritrovarci, di stare in gruppo, di rassicurarci a vicenda sulla natura buona e sacrosanta della nostra missione. In parole povere, eravamo una minoranza oppressa, e come diceva Marx: "Fanzinisti di tutto il mondo, unitevi!" Non sto scherzando. Non voglio dire che oggi per la fantascienza siano rose e fiori, ma insomma è entrata di prepotenza nell'immaginario collettivo, soprattutto grazie al cinema, e nessuno si vergogna più di questa passione.

Siamo immersi in un mondo fantascientifico e lo sanno tutti. All'epoca, invece... Tanto per farvi un esempio: il primo cineforum al quale partecipai in vita mia aveva in programma, tra gli altri film, Il dottor Stranamore di Kubrick. Io avevo sedici anni. Al termine della proiezione diedi il via al rituale dibattito dichiarando a voce spiegata: "Questo è un film di fantascienza! Anzi di fantapolitica!" Se non venni preso a pomodori marci fu solo perché nessuno aveva pensato di portarseli.

E così, periodicamente, ci ritrovavamo in una città o nell'altra, nei locali fortunosamente messi a disposizione da qualche anima pia, per discutere delle nostre idee, parlarci a vicenda degli ultimi racconti che avevamo scritto, sognare la grande rivista che non saremmo mai riusciti a mettere in piedi. Erano in genere viaggi massacranti: sveglia all'alba; ore e ore di questi treni lumacosi; una mezza giornata trascorsa in compagnia col fior fiore del fandom italiano, perdendoci nelle nostre eteree discussioni che non portavano da nessuna parte; e poi di nuovo il treno per il duro ritorno, con rientro a casa a notte fonda... Una volta, tornando se non erro da Firenze, viaggiammo tutti in branco su un carro bestiame. Era l'unico vagone libero sul treno. Probabilmente era anche il più adatto a noi. Ma nessuno si lamentò, nessuno disse niente: continuammo a parlare, in piedi e al freddo, fino alle rispettive stazioni, e fu ancora più bello.

Nel 1966 io organizzai a Piacenza una delle cose più lussuose che il fandom dell'epoca abbia mai visto (infatti ne riferì anche Oltre il Cielo). Mio padre, che era un altro vecchio marpione fantascientifico (è stato lui ad attaccarmi la passione per "Urania"), riuscì a farci sovvenzionare da una ricca associazione locale, la Famiglia Piasinteina. Costoro offersero una cena davvero lucculiana a tutti, il pernottamento a chi arrivava da lontano (ma ai milanesi no! Troppo vicini), e ci misero a disposizione un salone della loro sede, in un antico palazzo nobiliare. C'era pieno di gente e la serata, nel suo insieme, fu un grosso successo. Ma quel che vorrei sottolineare è che per avere il piacere di parlare in pubblico di fantascienza arrivò nella mia città gente da Milano (Luigi Naviglio e Paolo Brera), da Arezzo (Piero Prosperi), da Genova (Franco Fossati**), e addirittura da Trieste (Gianfranco Battisti***). Non so se mi spiego. Un viaggio su quelle distanze, su quei treni lenti e scomodi (il Pendolino era solo un concetto assai vago nella mente dell'Ente Superiore che presiede alle ferrovie), per poche ore di discettazione sulla fantascienza... Che tempi. E soprattutto, che tempre.

Io credo davvero che molti di noi si sentissero investiti di una sorta di missione messianica, evangelica. Predicare il verbo della fantascienza al popolo. Spargere il seme. Illustrare le meraviglie dei possibili mondi futuri a chi teneva il naso immerso solo nel gretto presente. Di certo non eravamo motivati da spinte economiche, perché se una cosa si può dire senza tema di smentite è che tutti noi, dal primo all'ultimo, col fandom abbiamo pagato di tasca nostra, e in moneta sonante. Chi più, chi meno.

Oggi quant'è più facile: butti in piedi una fanzine telematica, crei un sito su Internet, e non devi nemmeno muoverti da casa tua per intervistare l'autore americano. Per carità, lungi da me il voler cantare le lodi dei bei tempi andati: erano di gran lunga peggiori, assai più faticosi, e molto meno redditizi nei termini del pubblico raggiungibile. Non sono, o spero di non essere, un passatista.

Ma concedetemi l'orgoglio del pioniere, dell'uomo che parte su un carro (bestiame, magari) per tracciare un nuovo percorso...

Ciao da Vic

Note:

* Quanto mi ha consolato, negli anni, leggendo le autobiografie o biografie di grandi autori americani come Asimov, Dick, Pohl scoprire che anche da loro la situazione non era poi così diversa. Come spesso accade all'Italia nei suoi rapporti con gli Stati Uniti, abbiamo ripercorso la stessa parabola.

** Franco Fossati, una persona che io ho conosciuto nel 1965, un caro amico morto l'anno scorso, uno dei massimi esperti italiani di fumetto, arrivò quella volta a Piacenza con varie decine di copie del primo libro pubblicato in vita sua. Era, incredibilmente, una raccolta di poesie. Franco aveva partecipato al concorso di non ricordo più quale editore truffaldino ed era arrivato primo; ma il premio consisteva nell'onore di vedere pubblicate le poesie a patto di comperare (a prezzo di favore, s'intende) mille copie.

Tipico dei bassifondi dell'editoria italiana. Franco mise in mostra il suo libro nei saloni della Famiglia Piasinteina ma non vendette una sola copia (a parte quella che comperai io). E così tornò a Genova carico di delusione e di libri. Per fortuna si è ampiamente rifatto in anni successivi.

*** Gianfranco Battisti fu quel giorno il primo ad arrivare a Piacenza. Lo andai ad accogliere in stazione nel pomeriggio, e per ore continuai a pensare: "Oddio adesso quando lo presenterò dirò Cesare Battisti." E la sera, quando lo presentai allo spettabile pubblico, dissi: "Cesare Battisti". Avrei voluto sprofondare.