Chissà se il cielo d’ottobre sarà più propizio per tornare nello spazio?

Apollo e Artemide sono i due gemelli del pantheon greco che hanno dato il nome a due programmi NASA: Apollo è quello che ha fatto sognare negli anni Sessanta noi boomer fino al punto da farci dire almeno una volta “da grande farò l’astronauta” cosa che sembrava, chissà perché, del tutto possibile.

Artemide (Artemis) sta muovendo i primi esitanti passi, cercando di lanciare un primo vettore ma sta inciampando in continui rimandi a causa di problemi tecnici e meteorologici (che una volta erano meno frequenti). La destinazione è sempre la Luna, il nostro satellite, che nel primo venne vista come un traguardo e ora dovrebbe essere una partenza (insieme alla stazione spaziale) per la missione su Marte, primo passo per la colonizzazione dei pianeti del sistema solare e poi, chissà.

Inutile dire che questi non sono tempi facili per la Terra ma non lo erano nemmeno quelli del programma Apollo, allora c’era la guerra fredda, l’escalation nucleare, la rivalità URSS-USA nell’esplorare lo spazio. Oggi la rivalità spaziale pare spostata tra i Tycoon come Musk e Bezos nei confronti della NASA e quella USA-URSS invece è tornata al puro campo bellico.

Insomma, nonostante il vento solarpunk che spira nel mondo della fantascienza, a guardare la situazione dei programmi spaziali non si può che avere una sana dose di scetticismo.

L’idea di un pianeta unito che collabora senza rivalità per colonizzare le stelle è quanto di più utopico si possa pensare. Checché se ne dica non siamo usciti migliori dalla pandemia, ma anzi abbiamo ampiamente dimostrato che gli organismi sovranazionali non vengono presi in considerazione e non hanno strumenti tali da poter globalizzare la risposta ad un pericolo planetario, e, soprattutto, che nessuno è disposto a barattare quel poco di autonomia/comodità/sicurezza personale per il bene comune.

Bisogna essere pratici e rendersi conto che “non è possibile sfamare tutto il mondo” prima di avventurarsi nello spazio (già… cosi dicono) ma alle volte viene da pensare che la più grande palla al piede dell’esplorazione spaziale sia proprio il nostro stesso pianeta. Stiamo forse aspettando di non avere altra alternativa se non trovarne un altro? La cosa non sorprenderebbe visto che da sempre la spinta della colonizzazione di nuove terre è stata: siamo troppi qui, carichiamo i carri e ci spostiamo in un luogo dove ci sia più spazio e risorse per vivere.

Quindi dovremmo pensare alle astronavi coloniali come dei colossali carri coperti da conquista del west, come abbiamo letto e visto tante volte?

Affascinante ma forse anche un po’ ingenuo. Non ci sono forse altri metodi per andare tra le stelle?

Se amiamo la fantascienza è (anche) perché siamo sognatori di esopianeti, civiltà galattiche ed esplorazioni spaziali. E la spinta del sogno è necessaria, perché altrimenti non alzeremmo davvero mai lo sguardo rimanendo per sempre impantanati nel fango quaggiù.

Ed è fondamentale anche lasciare tracce di questi sogni: storie pensate e realizzate in varie modalità, che parlino della sfida che lo spazio può porre all’umanità.

Perché, forse, questo sogno, per noi, potrebbe non realizzarsi mai, o forse verrà realizzato da una razza che non siamo esattamente noi. Una razza capace di vivere nella terra del futuro e di volare tra le stelle senza doversi portare la casa a rimorchio.

Che siano microrganismi senzienti, creature di energia, transumani modificati, animumani, o una nuova incredibile evoluzione della nostra razza umana è tutto da scoprire, o perché no, da immaginare.

Quello che sappiamo, però, è che dobbiamo mantenere vivo il sogno, cercando di passarlo a chi verrà dopo di noi alimentando la nostra voglia di stelle con le storie che ci vengono proposte, nella speranza che l’umanità dimostri, prima o poi, di saper superare le divisioni “To boldly go…”

Utopia?

No, solo fantascienza. Quella che ci piace.