1

Un balzo e le impronte esplodono in un verde liquido, poi nulla. Un altro balzo, i muscoli in tensione ben delineati. Un ultimo balzo e le linee che confinano i denti sembrano vicine, troppo. Paolo non ce la fa, a sei anni quel movimento gli svuota ancora lo stomaco. Lo annulla agitando la mano da destra a sinistra, poi va giù. Fine. 

Con le dita spinge in alto il simulatore, assesta le due strisce di neuroconnettori immerse nei capelli e riparte, gli piace quel gioco. Apre le dita verso la sfera di riproduzione e libera dalla mente elefanti, rinoceronti, tigri e alligatori. A Paolo gli animali preorobotici piacciono, gli spezzano la giornata dalle ore di apprendimento e lo fanno sentire leggero come quelle orme sospese nell’aria che si perdono in sfumature fluorescenti.

– Paolo, a tavola!

Il diffusore ambientale di suoni gli incrina l’umore. Cavolo, proprio ora? Non ha voglia di spegnere e poi… e poi c’è quel maledetto tono astratto che lo urta. La mamma nella capsula di condivisione e le sue parole lì, nell’aria, rielaborate in un tono fluido e senza anima.

Stringe i pugni Paolo, tutti gli animali sprofondano, sciolti in chiazze verdi che scompaiono portandosi dietro il buon umore. Sfiora il sensore all’altezza della tempia destra, la sfera che ha davanti vibra in uno spasmo grigio e scompare.

Paolo si sfila il casco e lo lascia cadere all’interno del seme del sonno. Gli bastano due passi verso la porta per sentire nelle narici l’odore del disinfettante, una polverina di gocce bianche che si muove nell’aria. Sbuffa, pensa già a quando tornerà nella sua capsula e tutto avrà quel tanfo, l’aria sarà amara e a lui toccherà attivare il riqualificatore d’ambiente. Niente odori e un freddo che spacca le cellule nei secondi prima del ripristino termico. Alza le spalle, spinge in alto quel che gli resta della rassegnazione, d’altronde la sanificazione è importante e non può opporsi. Ciabatta fuori, e la porta si chiude alle spalle con un sibilo. Si volta, ha un ripensamento, vorrebbe tornare a giocare, troppo tardi, pensa incontrando con gli occhi il buio che colora l’oblò. Troppo tardi… quelle maledette barre, le linee orizzontali di controllo area, sono già diventate rosse e corrono verso l’alto. Ci vorrà almeno mezz’ora prima che si fermino e diventino verdi, maledizione! pensa Paolo, ma le gambe hanno già ripreso a muoversi lungo la lingua di corridoio.

La mamma armeggia sul piano di lavoro, il refrigerante socchiuso le taglia la schiena con una luce giallognola.

– Eccomi ma’, che si mangia oggi?

Lei solleva la testa, e gli offre il profilo minuto: – Oggi proteine animali con contorno di lattiero-caseari, fibre vegetali e il solito multivitaminico.

Paolo sente lo stomaco ribollirgli, le capsule dei lattiero-caseari le immagina già sciogliersi tra i succhi gastrici. Si siede felice, temeva proteine vegetali e leguminose, ma gli è andata di lusso. Le dita impazienti rullano sul tavolo.

La mamma chiude il refrigeratore e, con un sorriso senza confini, lo raggiunge. Paolo è titubante, nel piatto c’è qualcosa che non quadra. Riconosce la più grande, giallo paglierino, le due bianche dei latticini, la verde, l’arancione, ma non quella. Ce n’è una color avorio, isolata dalle altre. Deglutisce l’inquietudine, alza lo sguardo: – Cos’è?

Gli occhi della mamma brillano come smeraldi: – Una cosa buona da assaporare alla fine.

Paolo temporeggia, altre volte era stato tratto in inganno con frasi al miele e poi si era ritrovato a digerire qualcosa di sgradevole. Alza lo sguardo e cerca quello di lei, vuole la sua luce a riscaldarlo e sciogliere la diffidenza. – È una schifezza – ammicca la mamma, – una sfera di glucosio aromatizzato alla vaniglia.

Il petto di Paolo si alleggerisce, il peso cade giù e si perde chissà dove. – Wow! – Estrae la sfera proteica e la butta giù, le dita pronte a ripetersi con i lattiero-caseari.

– Non essere ingordo, bevi prima di ogni pietanza – lo ammonisce lei.

Il bambino ritira la mano risentito, non vede l’ora di prendersi il contorno, ma obbedisce. Un sorso, e le proteine scivolano via senza intoppi.

– Papà dov’è? – chiede lanciandosi in bocca la pietanza bianca. – Nella stanza di ripristino energetico, lo vuoi?

Lui ci pensa, da un lato l’idea di essere in tre gli è sempre piaciuta, dall’altro vorrebbe avere un padre come quello che hanno alcuni suoi amici. Lei ha uno sguardo morbido. Forse mi capisce, pensa Paolo, e la osserva mentre ingoia una pallina verde prima di bere e alzarsi. Dopo poco torna, seguita da Daddy.

– Ciao piccolo.

Il droide ha la voce fluida, sembra un liquido denso, senza increspature. Le placche in carbonio lo tradiscono, il bianco lucente si è spento all’incedere degli anni. Paolo storce le labbra, ma non è quel dettaglio a graffiargli le tempie, né il fatto che il suo sistema di raffreddamento è a vista. Non lo sente suo, non è il Daddy che si aspetta dalla vita, non ha un cuore da ascoltare con un abbraccio. – Che c’è? – la voce di mamma è calda, morbida, con striature basse che ne enfatizzano la preoccupazione.

– Niente – risponde lui abbassando lo sguardo.

Lei sospira: – Te l’ho detto, per ora abbiamo questo Daddy, poi appena i miei crediti disponibili saliranno, ne prenderemo uno tutto tuo. E poi – si volta a guardare il droide, l’affetto le zampilla dagli occhi, – è sempre stato un buon Daddy, non capisco cosa non vada bene. Lo abbiamo resettato e aggiornato per te.

– Ma’ – ribatte Paolo, – come faccio a vederlo come un papà se so che è stato il tuo Daddy? – Sbuffa, tra le mani rigira il multivitaminico come fosse una biglia pronta al lancio: – dovrebbero fare una legge per cui ogni nuovo nato da inseminazione artificiale ha in dotazione un Daddy di ultima generazione.

– Non fare così – la voce della mamma fluttua verso il basso in un’insenatura di pazienza, – l’unica differenza rispetto ai nuovi è nel sistema di raffreddamento, che è nascosto e silenzioso.

Gli occhi di Paolo cercano l’addome del droide. Un acquario trasparente, dentro un liquido blu da cui salgono piccole bolle d’aria intorno al condotto di connessione delle due estremità. Esotico, non fosse per i momenti in cui intercetta un problema di sistema da risolvere. In quei momenti il liquido gorgheggia e le bolle sono tante e grosse. A Paolo danno sempre l’idea di un prerobotico bollitore, uno di quegli utensili che usavano gli antichi del primo pianeta.

– Se posso permettermi – interviene Daddy, – il mio sistema è stato aggiornato sul più recente SD-34x, pertanto, ho una capacità pari a quella del 5SpDaddy-Plus sia in termini di software sia di mobilità.

– Visto? – enfatizza la mamma allargando le mani.

– I nuovi Daddy hanno la personalizzazione vocale e del colore del lettore ottico. – Paolo si avvinghia alle proprie ragioni, non può spuntarla Daddy.

– La personalizzazione vocale, così come quella cromatica del sensore ottico, non hanno alcuna ricaduta funzionale. Il loro apporto è meramente estetico, tanto da comportare una statistica di intercambio molto alta. Le recenti analisi dati rilevano infatti una mutazione di queste componenti pari a una ogni due giorni, un inconveniente che riduce dello zero virgola zero tre percento i livelli di attenzione dei soggetti umani interessati. Per non parlare del fatto che un sensore ottico continuo verticale ridimensionato in due sfere…

– Basta così, Daddy – lo interrompe Paolo irritato, – ho capito. Non fa niente, tanto mi sa che non ho scelta.

I suoi occhi cercano quelli della mamma, in gola un’accusa sospesa, una lama affilata che la taglierebbe a metà, ma la stringe a sé. Sanguina dentro pur di non lasciarla andare. Riporta lo sguardo su Daddy, la testa bianca, un uovo capovolto attraversato da una linea blu elettrica. Le placche in carbonio a protezione dei circuiti di memoria e di quelli motorii. Due sezioni, parte aerea e parte bassa unite da quella sorta d’acquario senza animali natanti. Bel rottame.

Il bambino tiene stretta a sé la verità, il desiderio più intimo. Non può ferire sua madre e poi c’è lui, Daddy, con quel maledetto rilevatore di conduttività elettrica.

– Cosa fai nel pomeriggio?

– Vado all’alveare ricreativo e seguo qualche lezione collettiva. Ho voglia di stare con gli altri.

– Okay – la mamma si volta verso il droide, – però ti accompagna Daddy, sei ancora piccolo e potresti perderti tra i corridoi di interconnessione.

– Che scocciatura…

– Cosa hai detto? – lo riprende con uno sguardo contrariato: – Signorino, se non moderi il linguaggio ti tolgo il pass per accedere al simulatore di gioco.

Paolo abbassa lo sguardo, la minaccia è un fendente di quelli che fanno male. – Scusa.

– Non ti preoccupare – la voce si abbassa, ma resta dura, – ma che non si ripeta.

– Okay… tu che fai?

– Sono in produzione criptovalute, si avvicina la fine dell’anno e le richieste di giochi non individuali aumenta. – È stanca, lo si vede dagli occhi scavati, le distrazioni e lo sguardo che si perde chissà dove. – Anzi, è ora che io vada. Mi raccomando con Daddy, come tutti i bambini di questo pianeta.

– Va bene, ho capito – a Paolo sfugge un tono aspro, uno schizzo del bollore che lo strazia dentro.

– Che hai, tesoro? – Lei lo accarezza, la sua mano ha un calore irresistibile, la vita che si trasmette da pelle a pelle e che il droide non ha. – Niente, scusa. Ero sovrappensiero – corre ai ripari lui.

L’addome di Daddy brontola nervoso, sfere d’aria di ogni grandezza salgono veloci mentre la testa ruota. È un sussurro elettrico che finisce quando il lettore ottico è su Paolo.

La nuca del bambino prude in un’esplosione di calore che sente incendiargli il volto. Ha voglia di andare, togliersi da quel pasticcio e correre lontano. – Vado a prepararmi – dice, ma è già in piedi, gli occhi puntati verso l’uscita e la sensazione di avere tutti i sensori dell’alveare domestico addosso.

2

– Com’è andata in alveare ricreativo?

Paolo non ha voglia di condividere, guarda Daddy in piedi davanti al tavolo, ma non lo vuole oltre la soglia, non si fida.

– Cosa prevedeva la lezione?

Il bambino si assesta sulla seduta e muove la mano verso l’alto attivando lo schermo didattico. La proiezione ellittica annovera le materie d’approfondimento: storia, architettura, lingua italiana, lingua interplanetaria.

– Vedo che siamo nelle ultime battute dello studio prerobotico. Bene. Vedrai che presto le lezioni saranno meno noiose. Ti piacerà il reimpianto sociale sui nuovi pianeti e lo spegnimento del primo, quello che si chiamava Terra.

Paolo guarda titubante oltre l’ologramma, fissa Daddy. È combattuto, ma cede: – La lezione di oggi era sull’architettura di fine età finanziaria.

– Come l’hai trovata?

– Strana… era una società che aveva la conoscenza delle forme gentili, ma che si ostinava nella riproduzione di oggetti e alveari con forme squadrate… erano assurdi.

– Primitivi, è questa la terminologia appropriata.

– Primitivi strani – sorride Paolo.

– Ho un aggiornamento sul patto sociale, non ti piacerà.

Il bambino sente una stretta in petto, un petalo che gli si stacca di dosso per volare via, chissà dove.

– La fase di gioco è stata ridotta di cinque secondi per gli over sei, con un monte temporale di quarantasette minuti e ventitré secondi di gioco rimanente.

– Ma perché? – protesta a pugni stretti mentre gli occhi gli diventano umidi.

– L’algoritmo ha evidenziato un miglioramento dell’efficienza cognitiva senza alcun risentimento sul fattore indispensabile.

Il fattore indispensabile, Paolo afferra quella nozione e la sbriciola, la fa a pezzi. Odia quella sigla, una definizione matematica per dividere l’uomo dalla macchina.

– Tu sai cos’è il “fattore indispensabile”, Daddy? – È cattivo, lo sa, ma è il suo modo di prendersi la rivincita, prevaricare il droide. E allora sia, tutto è concesso.

– Sì, fa parte delle informazioni base, si tratta degli elementi che distinguono l’uomo dalla macchina a livello funzionale. Nello specifico parliamo di fantasia e reattività al problem solving. – Daddy distende l’arto superiore, come se volesse ricevere qualcosa sulla mano. – Dimmi, Paolo, hai memoria della tua destinazione d’uso?

Il bambino si morde il labbro, cerca di afferrare la rabbia. Non fosse un robot, penserebbe che quel droide gli stia tirando un colpo basso. Le lacrime si spengono: – Diventerò un programmatore di funzionalità da alveare domestico.

– Non sei contento?

– Non ho scelta.

– Dovresti essere contento, piccolo. Hai ottenuto un buon innalzamento creditizio. La gran parte dei tuoi coetanei sostituirà i genitori mentre, quando sei nato tu, l’indice di allocazione delle risorse ha individuato un’altra opportunità. Quando raggiungerai la maturità produttiva, si libererà una slot in una mansione migliore di quella di produttore di criptovalute per giochi.

Ha ragione. Lo deve ammettere Paolo, l’idea di produrre algoritmi di gioco finanziario gli dà la nausea. La mamma passa ore, giorni, la vita intera a generare quelle cose che gli uomini prerobotici utilizzavano per fare degli scambi. Perché scambiarsi le cose? Tutto è disponibile e accessibile con l’accumulo di crediti-tempo, e ogni cosa è regolata dal sistema di sincronizzazione redistributiva. La soluzione se la trova sempre lì, l’ovvia conclusione dei pianeti che cambiano: non erano evoluti.

– Sei silenzioso piccolo, cosa ti angoscia?

– Niente, Daddy. – La risposta gli viene automatica, una goccia pura che si unisce al resto dell’acqua.

– A pranzo ho rilevato un turbamento, qualcosa di non corrispondente alla verità.

L’acqua evapora, la goccia si cristallizza. Paolo si sente arpionato alla sprovvista, colto in un corridoio di interconnessione senza via di fuga. – Non ho niente – cerca di evadere, liberarsi dalla morsa che sente stringergli il collo. Le bolle salgono stizzite nell’addome di Daddy. Maledizione, i denti stretti di Paolo creano una barriera a quei sentimenti che lo torturano dentro.

– Paolo…

Non lo lascerà mai, lo sa, conosce la programmazione dei Daddy e la loro ostinazione a eliminare qualsiasi ostacolo di sistema. – Che ti devo dire? L’altro giorno, all’alveare didattico –  sospira, – il mio amico Giulio è arrivato accompagnato da suo padre.

– Tutti arrivano accompagnati dai padri o dalle madri, non vedo il problema.

Lo sguardo di Paolo si aggrappa al lettore ottico del Daddy: – Era un padre vero. Anch’io avrei voluto un padre vero.

La ferita gli si apre in petto, la tristezza può smettere di corrodergli l’anima. È una strana leggerezza che sente, un peso caduto via.

L’acquario addominale del droide ribolle e il bambino immagina un pesce prerobotico che nuota in quel liquido.

– L’unità umana maschile nel sistema riproduttivo è antica, lo sai. L’inseminazione artificiale permette di ottimizzare la costruzione sociale. L’organismo maschile è stato staccato dal modello riproduttivo e riallocato nel sistema sociale come mero produttore. Poche donne scelgono ancora oggi l’inseminazione naturale, ma non possono essere discriminate.

– Io non le discrimino, le ammiro.

Il silenzio tra i due è attraversato da bolle che salgono, un rumore soffice di aria che cerca una via di fuga come i pensieri di Paolo ormai liberati in quella capsula. Si sente sciocco, si gratta la testa, con le unghie vorrebbe togliersi di dosso l’idea di essersi appena confessato con una macchina, un cumulo di ingranaggi… software e carbonio freddi, senz’anima.

– Sono usi destinati a estinguersi.

La voce di Daddy è un liquido denso, senza increspature. Gentile? Arrabbiato? Paolo non può dargli una tridimensionalità, ha davanti solo un droide programmato a fare il papà e null’altro.

– Lascia stare. Quanto tempo di gioco ho a disposizione?

L’acquario torna silenzioso, piccole sfere d’aria s’inseguono come annoiate. – Ventidue minuti e sette secondi.

– Okay Daddy, allora andrei nella mia capsula a spararmeli tutti.

– Potresti fare prima i compiti di lingua italiana. Saresti più libero a livello cognitivo e sforzeresti meno la sfera di apprendimento. Vedo che hai solo un tema scritto da sviluppare.

– No Daddy, ho voglia di fare una pausa e dimenticare questa storia.

– Come vuoi, Paolo. – Il droide si sposta, un passo preciso e silenzioso fino alla cornice sferica d’ingresso. Il suo rilevatore ottico sembra un’arma puntata contro il bambino. – Se non hai bisogno di me, andrei all’alveare di aggiornamento per acquisire la nuova versione di sistema.

Daddy attende, ogni sua azione è contenuta da una trincea di comandi. Tutto ciò che fa non è altro che un’esecuzione di utilità subordinata all’uomo e al sistema sociale. Paolo lo sente in pugno, temporeggia davanti all’idea di mandarlo nella capsula di ripristino energetico, al buio. È solo un robot, pensa dandosi dello stupido per aver immaginato di rifarsi su di lui, su una macchina. Daddy è solo un oggetto, è il sistema che fa schifo.

– Vai pure – gli sorrise, – ci vediamo dopo.

Il droide esce dall’alveare domestico e Paolo corre nel corridoio con l’ingordigia di un bambino che non vede l’ora di divorare il proprio tempo di gioco.

3

Sono cinque minuti che il diffusore sonoro glielo fa sentire.

La sua voce non cambia nella rielaborazione, non viene sterilizzata perché lui ha la stessa maledetta origine del diffusore.

Paolo temporeggia, il casco del simulatore spento ai suoi piedi e lo sguardo fuori dall’oblo. Il cielo è un infinito che gli entra dentro e lo colma di un’emozione ancora troppo giovane per evaporare. Quelle sfere gigantesche sembrano essere a portata di mano, superfici celesti così vicine da far pensare che possano schiacciarti da un momento all’altro. Pianeti levigati dall’immensità dello spazio che si spingono fin quasi a invadere l’exosfera. Mai come in quel momento Paolo desidera di essere altrove, su un altro pianeta, in un’altra galassia. Mondi che galleggiano in un mare di notte e sogni lontani.

Da poco ha ricevuto il messaggio di Giulio, un pugno nello stomaco di quelli che ti piegano in due. Suo padre è scomparso, la sua identità cancellata nel database della colonia K-34Ax.

Strano, ma la mente lo riporta tra le bolle di un problema di sistema. Si sente in colpa Paolo, i pianeti sembrano più vicini, gli anelli planetari come lame affilate gli tolgono il fiato.

Distoglie lo sguardo, e con la mano tira via le lacrime che gli gonfiano gli occhi.

– Piccolo, è ora di finire il compito di lingua italiana.

Lo odia quel Daddy, ora più di prima. Ma non può sottrarsi, ha paura di trasformarsi anche lui in un problema.

La sterilizzazione ha inizio, e la luce del corridoio ingoia la sua ombra lasciandolo solo.

Il lettore ottico sembra un’arma puntata, Paolo deglutisce e si siede, spinge sottopelle un fiume di ghiaccio per difendersi, la mano sospesa ad animare lo schermo didattico.

– Cosa hai, piccolo?

– Niente, preferirei che resettassi l’opzione nomignolo però.

– Opzione resettata.

– Daddy, una domanda.

– Dimmi pure, Paolo.

– Dove sei andato quando sei uscito?

– All’alveare di sistema.

– E poi? – Il bambino lo sfida, gli tiene gli occhi addosso a labbra strette.

L’androide sembra tardare in quella che dovrebbe essere un’elaborazione semplice.

– Daddy, rispondi alla domanda? – lo incalza Paolo.

– Ho sistemato un problema di sistema.

La pausa tra i due è un silenzio che apre la terra in due, ognuno sulla sponda opposta del cratere che li separa. Il bambino guarda altrove, attiva il file della materia da completare.

Nella sfera didattica compare la traccia del tema, ma i suoi occhi vanno oltre, sul collo dell’androide. Una luce rossa lampeggiante supplica un’iniezione di atomi nucleari.

Paolo avverte un prurito alla nuca, un’idea che scorge oltre la nebbia di rabbia.

– Cosa pensi di scrivere? – lo interroga il Daddy.

Lui scuote il capo, torna a concentrarsi sulle parole sospese in aria: “Tema: cosa vorresti fare da grande se non avessi una destinazione produttiva?”

Paolo ci pensa, ma non gli serve, lo sente salire dallo stomaco quello che vuole. Vuole per sé la cosa più preziosa, quella per cui non si hanno crediti, ma che l’istinto gli urla come vitale e irrinunciabile. – Voglio fare il papà naturale.

La spaccatura tra i due si riempie di bolle, sfere grosse e rabbiose che attraversano un liquido di raffreddamento.

Paolo non si scompone, la nebbia è ormai svanita e la vede: vede l’idea migliore che abbia mai avuto. So come si fa, devo solo concentrarmi. Si sforza per riempirsi di gelo, gli sembra di essere nella stagione delle tre lune, quando fuori dall’alveare la temperatura uccide all’istante. Ha imparato, non è difficile, deve solo controllare le emozioni, l’unico modo per sfuggire al rilevatore di conduttività elettrica.

– Daddy, hai la spia di ricarica rossa, andiamo in capsula di ripristino energetico. Io qui me la cavo. Poi, dopo ti faccio scansionare gli errori.

Il droide si dà un attimo, un cheek di autonomia probabilmente. – È la soluzione migliore.

Il bambino tiene stretti i nervi, non può cedere e perdere l’opportunità.

Si spostano in corridoio, la stanza buia è a un passo. Daddy entra e si accomoda nell’oculo di ricarica. Calma! Paolo cerca di tenere a bada i nervi, ma non respira, non sa da quanto ha smesso di buttare aria nei polmoni. Gli brucia il petto, Se sbaglio sono spacciato, calma! Il lettore del Daddy si spegne e l’indicatore di ricarica è un lampeggiante verde che svuota lo stomaco. Il bambino sospira come fosse tornato da una corsa lunga quanto la circonferenza di un pianeta. Chiude la porta, e dalla notte della capsula emerge solo quel maledetto sfolgorio verde.

Apre il pannello di gestione manuale della capsula. Posso farcela. Spinge in alto la leva di blocco e con uno schiocco sordo gli entra nelle tempie come un ago gelido. Ora comando io, preme con forza il pulsante verde, i nervi gli si sciolgono dentro. La sanificazione ambiente è un ronzio liberatorio. Sul display, il timer lampeggia. Troppo tempo, pensa, e taglia di tre quarti il countdown. Start. Quei dodici minuti sono un’eternità che divora secondo per secondo davanti all’oblò, le iridi piantate sull’unica cosa visibile: l’intermittenza della spia verde sul collo del Daddy.

Un bip spinge le linee rosse di chiusura della porta in basso. Se il ripristino spacca le cellule a me, spaccherà qualcosa anche a quello. È un desiderio, l’unica speranza.

La spia del Daddy ha smesso di abbuffarsi di atomi nucleari e ora è una luce fissa, un faro che indica l’inquietudine. Una linea azzurra taglia il buio e Paolo si sente perso. Non controlla più il corpo, la paura è in circolo.

Un suono gli entra in testa come uno spillo rovente, il bip dell’ultima operazione prima dell’apertura della porta.

Il lettore ottico si solleva verso l’alto come fosse un disco volante azzurro sospeso nel nulla. Il bambino arretra, trema, non è possibile. Nelle vene il sangue sembra un fiume gelato e gli occhi si riempiono di una paura liquida. Il visore ottico non c’è più, la spia verde neanche e il nero è totale. Il bambino non sa che fare, le gambe sono gomma fusa impossibile da utilizzare. L’oblò è un’esplosione di luce, lui non pensa e fa uno scatto, le mani strette alla cornice del vetro.

Il Daddy è a terra, l’acquario in frantumi, incapace di contenere quel liquido dilatato. Paolo sorride e si accascia. I muscoli sono corde senza tensione, il petto gli si gonfia avido d’ossigeno. Ce l’ho fatta. La felicità è un formicolio dietro l’orecchio, le gambe leggere distese sul pavimento. Tutto sarà diverso, ora. Il piccolo chiude gli occhi, le palpebre pesano troppo, è stanco, ma per una volta sente di non aver bisogno di sognare.

Qualcosa lo spinge su una spalla. Sono tocchi morbidi, attenti ma decisi. Qualcosa lo spinge a tornare, a svegliarsi, e allora schiude gli occhi in un mugolio di protesta. Da quanto dormo? Si chiede.

Lo sguardo cattura il grigio perla davanti a sé. Lo riconosce, è il colore della divisa che indossa, quella degli abitanti della colonia K-34Ax, la sua colonia. La vista si schiarisce, i contorni diventano solidi e Paolo ha una scossa. Vorrebbe conficcare le unghie nel pavimento e tenersi stretto perché ciò che sente è un vortice che lo porta via. Accanto a lui, dei piedi di androide. Alza la testa, piano, e le placche salgono bianche sugli arti inferiori. Gli occhi sollevati in aria, nel cuore il desiderio di sprofondare nelle viscere del pianeta. – Ciao, tesoro – la mamma ha un sorriso che collegherebbe due galassie, – oggi ho avuto una promozione!

Lui non trova parole nell’abisso in cui è.

– Finalmente hai il tuo Daddy!

Due sfere blu lo infilzano, l’imitazione gelida di iridi senza vita. Paolo abbassa lo sguardo, forse… magari posso, con un po’ di astuzia… prega fra sé cercando il punto debole. Il respiro si ferma. È un vuoto deprimente a saturargli i polmoni. L’acquario non c’è più, quel maledetto contenitore di bolle non è lì ad aiutarlo con le sue imperfezioni.

– Ciao piccolo.

La voce è un grumo caldo che graffia l’anima. La vista di Paolo ha un cedimento, tutto sfoca, fino a spegnersi. Il bambino è esausto, e in quella pausa di buio solo le sagome verdi degli animali riescono a non fargli pensare alla realtà.