Delos 23: Racconto racconto di

Angelo De Ceglie

dreamland

Dopo Più a Nord del futuro, che è stato molto apprezzato dai nostri lettori, proponiamo un altro racconto di Angelo De Ceglie, autore italiano scomparso nel 1985. Dreamland uscì originariamente nel 1984 su "La Spada Spezzata".

Ora ovviamente il cantiere era abbandonato, e i suoi tralicci si ergevano nel deserto come le torri di una città fantasma. I giacimenti di CarboL si erano esauriti sei anni prima, e la Compagnia aveva ritenuto meno costoso lasciarli lì piuttosto che smantellare gli impianti. Ramón, la mia guida, portò i1 minuscolo aliante a reazione ad atterrare traballando sulla vecchia pista di cemento, ormai tutta sconnessa. Ci incamminammo insieme nel caldo torrido del pomeriggio.

- Lei conosceva già questo posto, eh, señor Gilles?

- Sì.

- Lavorava qui?

Io ebbi come un fremito mentre lo sguardo si posava sugli scheletri corrosi e arrugginiti delle immani trivelle, un tempo così familiari. - Sì, ci ho lavorato, quindici anni fa. Ero ingegnere minerario, allora.

- Adesso non sta più con la compagnia.

- No. La lasciai proprio in quel periodo, dopo... dopo che successe il fatto.

Lui aggrottò la fronte. Parve scavare a fondo nella memoria.

- Madre de Dios! - esclamò poi. - Ora ricordo. - Scosse la bruna testa abbronzata. - Povera señora...

Una brutta storia. Proprio una brutta storia.

Ci dirigemmo senza più parlare verso il quartiere industriale. Ci addentrammo tra le torri di scavo e gli altri giganteschi macchinari per l'estrazione e la lavorazione del CarboL. Feci scivolare più volte la mano sulle superfici di acciaio ossidato degli impianti.

- È inutile che io cerchi di spiegarle a che cosa servivano, eh, señor? Lei certo lo sa meglio di me.

Io annuii, continuando a voltarmi in giro. Una volta, quindici anni prima, mi ero ripromesso di non tornare più a Dreamland. Ma ora che, mio malgrado, motivi di lavoro mi ci avevano ricondotto, non ero riuscito a resistere all'impulso di rivedere quei luoghi così fatalmente impressi nella mia memoria.

Attraversammo l'intero cantiere, fin quasi alle reti di recinzione, e poi tornammo verso il villaggio di baracche di lamiera. Su quei pianeti arretrati era ancora più conveniente utilizzare manodopera locale anziché robot. Su un lato del villaggio, disposte lungo un vialetto di ghiaia, stavano le villette prefabbricate a un solo piano riservate ai dirigenti. Ci fermammo di fronte a una di esse, dalla porta che oscillava cigolando nella brezza.

- Questa era la sua casa?

- Sì. Mia e di Marta. Lavoravamo insieme. Siamo stati qui due anni. - Feci per entrare.

- Attento, señor - disse Ramón, posandomi una mano sul braccio. Qualche tigre potrebbe averci fatto la sua tana.

Io sorrisi, e mostrai la fondina con la pistola. - Ramón, - dissi poi, - ti dispiacerebbe lasciarmi solo per un po'?

Lui mi squadrò un attimo, ma comprese. - Come desidera, - disse. Mi voltò le spalle, tornò verso l'aliante fischiando piano.

Io entrai. Dentro, tutto era ancora come lo rammentavo, ammantato da uno spesso strato di polvere. Aprii le finestre e mi aggirai per diverso tempo per le stanze nelle quali avevo vissuto insieme a Marta. Mi sedetti sul letto, a ricordare.

Poi, tornai fuori. Feci il giro della casa. Presi a scrutare tra i riflessi abbacinanti del deserto verso le alture rocciose dove, quindici anni prima Marta si era perduta per sempre.

Lì, assopite, stavano le tigri delle Sabbie. Più tardi la notte, si sarebbero svegliate, avrebbero preso a vagare per il deserto emettendo i loro onirici richiami.

Su quel dannato pianeta metà della fauna possedeva poteri ipnotici, che agivano attravero i sogni. Per questo i coloni umani dovevano tenersi sotto l'effetto di droghe per non sognare. Probabilmente Marta quella notte si era dimenticata di prenderle. A ogni modo, si era alzata, aveva preso una jeep e si era inoltrata nel deserto seguendo i miraggi onirici delle Tigri. Non trovammo più nulla di lei. Nemmeno la jeep. Le tracce, cancellate dal vento. Tra le alture, nulla. Scomparsa.

Non mi accorsi del tempo che passava, mentre fissavo immobile la sabbia. Non mi accorsi neppure del calare delle prime ombre della sera.

- Vogliamo andare, señor Gllles?

Mi riscossi. Ramon era là in attesa. Sospirai. - Vorrei dormire qui questa notte, Ramon - dissi.

Lui parve sconvolto. - Come, señor...?

- Voglio fermarmi qui. Tornerai a prendermi domattina.

Lui mosse le mani a disagio. - Ma, ma...

Lo fermai con un geato. - Ho già deciso.

Ramon fece delle smorfie di disappunto, guardando ora me, ora il deserto. - Farà molto freddo, - disse poi soltanto.

- Ho la tuta molecolare. La regolerò sul massimo.

Lui si frugò nella camicia. Ne estrasse una piccola scatoletta.

- Prenda queste almeno.

Io lessi l'iscrizione, e lo ringraziai. Ci salutammo. Rimasi a vedere il velivolo che partiva, poi rientrai. Mi sdraiai sul letto, posando al mio fianco la scatola. Più tardi, furtivamente, venne il sonno.

Durante la notte venni svagliato dal rumore di un motore. Una jeep. Non era possibile. Non... mi alzai a sedere sulla sponda del letto. Il vento mi portava l'eco lontana degli ululati delle Tigri delle sabbie. La mano mi corse alla fondina, e poi ricadde.

Il rombo crebbe d'intensità finché, con uno stridio di pneumatici, la macchina si fermò proprio di fronte alla villetta. Il tonfo di una portiera, uno scalpiccìo.

Cominciai a tremare. C'era qualcuno, fermo davanti alla porta che mi aspettava. Lentamente, il cuore in tumulto, mi sollevai dal letto. Come in trance, camminai verso l'ingresso con passi da automa, le mani abbandonate lungo i fianchi. Raggiunsi la porta. Alzai una mano incerta verso la maniglia. Esitai, udendo le tempie martellanti. Poi aprii di scatto.

- Marta...

Lei era lì, stagliata nella semioscurità, identica a come io la ricordavo. Per lei non era passato nemmeno un giorno dei quindici anni che avevano invecchiato me. Indossava la tuta kaki di quel giorno, ora tutta strappata e macchiata di sangue antico. I suoi lunghi capelli sventolavano nella brezza notturna.

- Vieni, Gilles, - mi disse, tendendomi una mano.

Alle sue spalle, io intuivo gli spettri ghignanti delle Tigri delle sabbie. Le sentivo ruggire. Non me ne curai. Lei era lì, le mie dita sfioravano le sue.

- Vieni...

- Sì - dissi.

Dolcemente, la seguii.

Il giorno dopo, Ramon trovò inspiegabili tracce di pneumatici che giungevano fin davanti alla villetta e ne ripartivano per andare a perdersi nel deserto. El señor Gilles era scomparso.

Chiamò e chiamò, ma non ottenne risposta.

Perplesso, Ramon si levò il cappello. Rimase parecchi minuti a grattarsi pensoso la testa, scrutando a palpebre socchiuse tra le sabbie ardenti, indeciso se seguire o meno le tracce.

Alla fine scrollò le spalle con un sospiro e rimise il cappello. Fissò la scatola intatta di pillole antisogno che aveva trovato nella camera da letto.

- Addio, señor Gilles, - mormorò. - Sii felice.

Si voltò, tornò lentamente verso il velivolo, le mani nelle tasche, tirando calci ai ciottoli e fischiettando sommesso una antica ninna-nanna. Risalì sull'aliante. Ripartì senza mai voltarsi indietro, verso la città lontana, verso la civiltà.

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