Delos 23: Pensiero Stocastico Pensiero Stocastico

di Roberto Quaglia

e ora... un po'

di polemica gratuita

(ci paga forse

qualcuno per farla?)

Secondo Robert Sheckley, per troppo tempo ormai Roberto Quaglia non è stato famoso. Secondo Ugo Malaguti, è un genio. Roberto Quaglia, ovvero il rappresentante della fantascienza del nostro Paese più famoso all'estero e più sconosciuto in Italia, continua a fare tante domande e a rifiutare tutte le risposte.

Sguinzagliare la mente a zonzo per i massimi sistemi è lodevole, a patto di non dimenticare che oltre i massimi sistemi ci sono anche i minimi. Che ci si faccia attenzione o no, in società i minimi sistemi occupano il massimo dello spazio, e i massimi sistemi sono relegati e compressi nel minimo del volume. Di quando in quando è utile accorgersi che esistono i minimi sistemi, non fosse altro che per il fatto che i minimi sistemi tendono ad accorgersi di noi quanto basta ad infastidirci anche troppo.

Un tipico minimo sistema è la polemica. Detto fra noi, non capisco bene cosa questa parola significhi, ma la usano tutti e faccio finta che essa voglia davvero dire qualcosa. "La polemica". Prima di continuare pensateci un po' su: cosa vuol dire "polemica"? Siete in grado di spiegarne il significato con parole vostre?

La più tipica delle polemiche è quella gratuita, chissà perché. Forse, in effetti, la polemica non può essere che gratuita, sebbene anche questa frase non è che poi voglia dire granché.

Ebbene, qualche settimana fa un minimo sistema si è fugacemente accorto di me, adescandomi fra le sue spire. La Polemica Fandomica Nazionale, infatti, un vero e proprio organismo che vivacchia da decenni nella sua micro nicchia ecologica, possedendo in rotazione la gran parte dei Nomi che aleggiano nel microcosmo fantascientifico italiano, si è per un giorno impadronita anche di me. E' pure vero che io non ho opposto resistenza; mi sono lasciato possedere poiché un'escursione nella Polemica Fandomica Nazionale è una villeggiatura che non si rifiuta, almeno una volta. I prezzi sono buoni, e anche se il paesaggio è desolato ci si riesce ad appagare lo stesso, godendosi quel tenue fascino che solo il Nulla macchiato di Poco sa esercitare.

Riporto di seguito integralmente quanto ho scritto in tale occasione. Poiché traggo spunto da una polemica iniziata da Mirko Tavosanis, riporto anche la stessa, poco dopo l'inizio del pezzo, e la riprendo successivamente nelle sue separate parti. Per diminuire la confusione, ho colorato di marrone i pezzi di Tavosanis e di blu le citazioni che Tavosanis riporta di una mia recensione sulla quale egli polemizza.

A tale polemica, per fare buon peso, ne ho aggiunto una seconda, che come la matematica insegna, seguirà la prima, e tanto per cambiare parlerà d'altro.

Eccovi dunque, come promesso, finito l'antipasto, il vostro odierno pranzo di polemica gratuita, iniziando, come si deve, con la prima razione:

PARTE PRIMA: FANDOM E FANDONIE

Il mio interesse per la polemica, solitamente, tende a zero quando non a sottozero. Ragione per cui non è mio costume chiosare sistematicamente su quanto altri ritengono di dire e sostenere riguardo a qualcosa o a qualcuno, per esempio me. Tuttavia, dato che gradisco smentirmi ogni volta che me ne viene voglia, faccio oggi un'eccezione, replicando agli strali che mi sono stati rivolti da Mirko Tavosanis riguardo alla mia recensione dell'antologia di fantascienza italiana "A Lucca, mai!", pubblicata on line nel numero 22 di Delos, così cogliendo en passant l'occasione di esternare anche due o tre mie opinioni rispetto al fandom, alla fantascienza italiana e alla vita in genere. Opinioni che semplicemente sono ciò che oggi mi va di affermare, sapendo che già domani (e fors'anche già oggi fra qualche ora) non concorderò più pienamente con le stesse, com'è naturale e giusto che sia.

Ecco quindi di seguito, per rinfrescare la memoria, l'integrale messaggio emanato da Tavosanis.

Nei messaggi delle scorse settimane mi era capitato di affrontare anche l'ennesima disputa sul fatto di "parlar male della fantascienza italiana". In particolare, mi era capitato di dire che un tono secco e tagliente è spesso l'unico modo per affrontare una situazione in cui tutti si profondono in lodi sperticate dell'ultimo romanzetto italiano.

Qualcuno (era Francesco Grasso, se ben ricordo) a questo punto aveva detto, tra le altre cose, che non gli sembrava che la fantascienza italiana venisse lodata poi troppo... Bene, prendo spunto dall'ultimo numero di Delos (che è senza dubbio ormai il massimo punto di riferimento per il fandom elettronico italiano - un po' la versione nostrana di Locus) per esaminare una tipica recensione di libro italiano: quella che Roberto Quaglia ha dedicato a "A Lucca mai". Dunque, vediamo un po'...

"Ebbene, A Lucca, mai! pare davvero essere riuscito a pescare in quella percentuale piccola, ma significativa, di buona, anzi ottima fantascienza italiana, proponendoci un volume di alto livello, elegante, raffinato, da collezione..."

Inutile dire che Roberto Quaglia stesso è uno degli autori inclusi in questo volume "di alto livello"...

"Come si vede, i Grandi Nomi che hanno fatto la storia della fantascienza italiana sono in buona parte presenti, assieme a parecchi talenti emergenti, e tutti sono degnamente rappresentati con ottime storie."

Inclusa, evidentemente, quella dello stesso Quaglia... Comunque, non si può fare a meno di gioire per il fatto di avere

"finalmente!, un quadro della fantascienza italiana degno degli elevati livelli che essa ha saputo esprimere nel tempo."

E scopriamo con piacere che:

"Infatti, per quanto sia noto a pochi, la produzione di fantascienza italiana può dirsi inferiore soltanto a quella angloamericana, per quantità e qualità, a dispetto dell'aneddoto che da origine al titolo."

E io che pensavo che le centinaia di Perry Rhodan usciti in Germania presentassero da soli un numero di pagine equivalente a quello prodotto da tutta la FS italiana di tutti i tempi... o che la Francia solo con la collana Fleuve Noir arrivasse agli stessi livelli... E che, passando dalla quantità alla qualità, non solo la fantascienza tedesca (da Ernsting in poi) o quella francese (Andrevon, Brussolo, etc.) potessero schiacciare tutti gli autori italiani a parte Aldani... e che nomi come quelli di Stansilaw Lem o dei fratelli Strugtaskij non fossero molto "angloamericani"... e che esistesse perfino una prolifica fantascienza giapponese, o di lingua spagnola...

Ma non dimentichiamoci delle esigenze di tutti i giorni:

"Non mi dilungherò di seguito nella meticolosa disanima dei singoli pezzi che compongono l'antologia. Il libro è bello e basta, altrimenti non mi sarei messo qui a cantarne le lodi, a prezzo della mia fatica - oltraggio alla mia pigrizia! - dato che nessuno mi paga per farlo. Il prezzo dell'opera, infine, corrispondente a lire 50.000, può sembrare a prima vista elevato (prima che mi capitasse in mano il volume, tale pareva anche a me), ma ad una analisi più attenta si rivela perfettamente adeguato, e addirittura contenuto. A prescindere infatti dalla qualità della letteratura che lo riempie, A Lucca, mai! è in sé un vero e proprio oggetto da collezione..."

Etc., etc.

Ora, una recensione del genere potrebbe essere considerata un semplice "incidente di percorso" sia per Quaglia che per Delos, se non fosse che questo è lo standard della FS italiana.

E nemmeno ci si rende conto, immagino, che è perlomeno di cattivo gusto far scrivere l'elogio di un'antologia a uno degli autori inclusi nell'antologia stessa. Tanto le lodi sperticate, più o meno con le stesse parole, verranno ripetute con il lancio della prossima antologia.

Tutto questo, naturalmente, a prescindere dalla qualità effettiva del prodotto. Alcuni degli autori inclusi mi sembrano molto bravi (a cominciare da Stefano Tuvo, che per me è un mito), altri... meno. Appena avrò 50.000 lire per comprare il libro vi saprò ridire, e incrociamo le dita.

Ma per me è comunque spiacevole che si usino questi toni esaltati e che si spari a zero su fantascienze nazionali che hanno dato alla FS molto più di quella italiana (tra l'altro, queste fantascienze credo che Quaglia, che si occupa del settore da anni, dovrebbe conoscerle benissimo). E credo che siano proprio iniziative del genere a tenere la fantascienza nazionale nel ghetto per militanti in cui spesso si ritrova.

Saluti,

Mirko Tavosanis

P.S. Gli autori sono stati retribuiti? Vittorio Curtoni, un cui racconto è stato incluso nel volume, può probabilmente dirci qualcosa in merito. Immagino che se ha contribuito gratis, l'abbia fatto per simpatia (cosa comprensibilissima, visto che Malaguti è un'istituzione, nel campo)... ma mi piacerebbe sapere più nel dettaglio come sono andate le cose.

Il mio primo pensiero leggendo ciò è stato: Ah, fa piacere scoprire che da qualche parte c'è qualcuno che legga una parte di quanto io m'indaffaro a scrivere, e che ciò facendo gli venga in mente qualcosa. Intervengo volentieri a riguardo, poiché condivido sostanzialmente lo spirito di tali strali. Concordo infatti quasi pienamente con gli argomenti che Tavosanis usa contro di me, anche se ritengo lievemente ozioso, quando non addirittura fuori luogo, che proprio io ne sia il bersaglio. Sto confondendo le acque e le idee? Tanto meglio! La realtà è infatti sempre più complessa di quanto a volte ci faccia comodo credere che sia, cosa che ogni pensatore di science fiction dovrebbe in ogni istante avere sempre presente.

Colgo così l'occasione per rivelare al mondo un curioso dualismo del quale mi ritrovo vittima... oppure, se preferite, una modica dissociazione schizoide che mi distingue (anche da me stesso), o invece, più semplicemente, un'opposta opinione che conflittualmente convive in me in merito ai valori della fantascienza italiana.

L'incommensurabile noia, che non giunge neppure a meritare il titolo di "disprezzo", che riesce a suscitare in me la quasi totalità della produzione di cosiddetta fantascienza italiana, è inferiore soltanto alle sensazioni ancora più orrende che riuscirebbero ad infliggermi gli scritti inutili della pressoché totalità degli autori italiani esterni alla SF, se mai io fossi costretto a leggerne più delle poche righe che bastano a massacrare la mia affezionata vivacità mentale. Analoghe opinioni, non posso tacerlo, nutro nei confronti di quasi tutte le produzioni extra-italiane, angloamericane incluse.

Tuttavia, convive in me la sensazione che fra tutte le fantascienze del mondo, quella italiana sia fra le migliori per potenzialità. Potrebbe davvero, in un qualche futuro, porsi all'avanguardia nel mondo per originalità, non fosse altro per il fatto che l'Italia, per strana e indiscussa fatalità, abbia sinora dimostrato in moltissimi campi un potenziale creativo che teme pochi rivali al mondo. Dico ciò senza voler peccare di alcun nazionalismo, il puro sospetto del quale mi umilia profondamente. Per come sia ridotta la cultura in Italia oggi, infatti, per quanta cretineria infesti pandemicamente i neuroni di quasi tutti gli umani che mi tocca incontrare dalle nostre parti, è piuttosto probabile che in un non lontano futuro io alzi i tacchi e mi rechi altrove, lasciando i rimanenti a godersi la mia assenza della quale comunque non saranno bene in grado di accorgersi.

Già mi figuro chi queste righe stia leggendo, gongolare soddisfatto di fronte alle contraddizioni che così platealmente espongo, traendone alimento per quella maggiore considerazione di sé alla quale molti soffertamente anelano.

Il fatto, come dicevo prima, è che la realtà è complessa, e che non esiste una verità sola. E talvolta (quando non sempre) l'universo ci fa lo scherzetto ci offrirci in pasto verità opposte e nondimeno fondate.

Un tizio che oggi non è più di moda, espresse tempo fa, in mezzo ai suoi milioni di parole, un concetto niente male, che non ricordo alla lettera, ma che più o meno faceva: "Le cose vanno viste con il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà."

Il panorama culturale italiano odierno (non solo in fantascienza) è di una desolazione inesprimibile. Tuttavia, nel mortorio, è possibile scorgere focolai di vita di eccelso splendore, a patto di saperli distinguere dai fossili che una superstizione diffusa confonde con i viventi autentici.

Con questo, per venire direttamente al tema, non si vuole sostenere che tutti i racconti compresi nel libro "A Lucca, mai!" siano capolavori imperdibili. Non si sostiene che "A Lucca, mai!" debba magicamente rappresentare nella fantascienza mondiale più di "Dangerous Visions" di Harlan Ellison. Ciò che si sostiene, che io sostengo, è che "A Lucca, mai!" è da considerarsi un momento importante per la nostra fantascienza nazionale, non perché quest'ultima sia in sé qualcosa di straordinario, ma perché, usando ciò che l'Italia ha prodotto, è stata messa insieme un'antologia decisamente superiore a quelle che l'hanno preceduta. Tutto qui. Scusatemi se è poco. Per la prima volta da moltissimo tempo c'è un'ampia antologia "storica" della fantascienza italiana, comprendente una selezione di quasi mezzo secolo di produzione italiana, la quale si presenta in una edizione rilegata con dignità superiore a quella dei tascabili usa e getta. Un'antologia che in futuro verrà con tutta probabilità tradotta in altri paesi fornendo un quadro della nostra fantascienza pieno di una dignità assai rara. Il pessimismo della ragione di Tavosanis è perfettamente fondato. Ma "A Lucca, mai!" rappresenta, a mio avviso, meglio di molti altri esempi, l'ottimismo della volontà di vedere la fantascienza italiana maturare e dire finalmente la sua nel panorama internazionale, e tale ottimismo ha da essere riconosciuto, valutato e premiato.

Nella mia recensione non ho voluto dilungarmi sui singoli racconti che compongono l'opera, ma vorrei fare un'eccezione, per imporre una riflessione inusuale: il primo racconto dell'antologia è di Giorgio Monicelli, il creatore di Urania, l'inventore della stessa parola italiana "fantascienza". Ebbene, è un racconto splendido. Che però nulla ha a che fare con la fantascienza. Eppure ci sta benissimo. Perché? Sebbene io abbia in mente la risposta, nessuna delle formulazioni linguistiche che ho in punta di lingua renderebbe merito alle sue parecchie sfumature, quindi taccio a riguardo, invitando a rifletterci chiunque leggerà il libro.

"Ebbene, A Lucca, mai! pare davvero essere riuscito a pescare in quella percentuale piccola, ma significativa, di buona, anzi ottima fantascienza italiana, proponendoci un volume di alto livello, elegante, raffinato, da collezione..."

Inutile dire che Roberto Quaglia stesso è uno degli autori inclusi in questo volume "di alto livello"...

È utile dirlo, invece, dato che tale presenza stessa - non me ne si abbia se non dissimulo le mie fondate opinioni a riguardo - contribuisce sensibilmente a stabilire la misura del succitato livello.

"Come si vede, i Grandi Nomi che hanno fatto la storia della fantascienza italiana sono in buona parte presenti, assieme a parecchi talenti emergenti, e tutti sono degnamente rappresentati con ottime storie."

Inclusa, evidentemente, quella dello stesso Quaglia...

Spero di non essere stato confuso con i talenti emergenti...

E scopriamo con piacere che:

"Infatti, per quanto sia noto a pochi, la produzione di fantascienza italiana può dirsi inferiore soltanto a quella angloamericana, per quantità e qualità, a dispetto dell'aneddoto che da origine al titolo."

E io che pensavo che le centinaia di Perry Rhodan usciti in Germania presentassero da soli un numero di pagine equivalente a quello prodotto da tutta la FS italiana di tutti i tempi... o che la Francia solo con la collana Fleuve Noir arrivasse agli stessi livelli... E che, passando dalla quantità alla qualità, non solo la fantascienza tedesca (da Ernsting in poi) o quella francese (Andrevon, Brussolo, etc.) potessero schiacciare tutti gli autori italiani a parte Aldani... e che nomi come quelli di Stansilaw Lem o dei fratelli Strugtaskij non fossero molto "angloamericani"... e che esistesse perfino una prolifica fantascienza

giapponese, o di lingua spagnola...

Ammetto che Perry Rhodan mi era momentaneamente uscito di mente, così poco esso mi ha mai interessato. Colpa in effetti assai grave, ma soltanto perché uno dei redattori di Perry Rhodan, Klaus Frick, è un mio buon amico, e non si meritava il torto che io mi dimenticassi di lui. Tuttavia, se nel mondo la parola "fantascienza" (e l'inglese "science fiction") è solitamente considerata epiteto di spregio piuttosto che termine per indicare la letteratura di intelligente estrapolazione, è proprio in virtù dei bassissimi livelli di qualità che certa fantascienza (che costituisce, ahimé, la maggioranza dell'insieme) non si vergogna di esprimere. Il mio riguardo per la stessa, quindi, non potrebbe essere inferiore. Tuttavia ammetto che, a rigore, la mia asserzione circa la quantità possa non essere corretta, anche se pure qui dipende dai criteri di analisi: se si consideri, cioè, la quantità di opere prodotte (e Perry Rhodan ovviamente ci batte) o la quantità di autori scriventi (e credo che l'Italia, in quanto a numero di grafomani, tema davvero pochi rivali). E riguardo alla qualità... confesso di aver avuto qualche serio dubbio, mentre scrivevo così. L'esempio di Stanislaw Lem e degli Strugatskij è in sé poco significativo. Al cospetto di Lem, anche quasi tutta la science fiction angloamericana scompare, tale è il genio dello scrittore polacco. Non per questo si può dire che la fantascienza polacca è superiore o uguale a quella americana. Una fantascienza nazionale non si può giudicare sulla base di una eccezionalità singolare. L'esistenza di Lem è un esempio illuminante per qualsiasi autore non angloamericano, la prova esemplare che non è necessario essere angloamericano per scrivere eccellente SF, ma esso ci dice ben poco del livello medio degli altri scrittori polacchi.

Ma per me è comunque spiacevole che si usino questi toni esaltati e che si spari a zero su fantascienze nazionali che hanno dato alla FS molto più di quella italiana (tra l'altro, queste fantascienze credo che Quaglia, che si occupa del settore da anni, dovrebbe conoscerle benissimo).

Il tono esaltato è una caratteristica che mi è propria anche quando dormo, dal quale mi astengo solo in occasione degli sporadici mal di testa che mi faccio venire quando io stesso mi stanco del mio atteggiamento esaltato (non è detto che sia proprio così, tuttavia la scienza stessa ignorando le effettive cause del mal di testa, ogni interpretazione è lecita). La mia stessa voce, quando la emetto, è notoriamente carica di un particolare vigore, che potremmo dire esaltato, per via del quale la mia eloquenza risulta spiacevole a molti (così alcuni di essi mi dicono e ripetono, ma pazientemente subiscono, forse attratti da ciò che dico), ed è quindi coerente che ciò sia rispecchiato da quanto scrivo. Il fatto che il mio genere di esaltabilità possa venire confuso con l'esaltabilità altrui, è un problema di chi confonde.

Sullo sparare a zero, beh, questa è una forzatura di Tavosanis. Non ricordo con esattezza (e non ho il mio articolo sottomano), ma non mi sembra di avere neppure menzionato le fantascienze estere non angloamericane. Forse posso avere lanciato qualche fugace strale nei riguardi di quelle angloamericane, dato che non apprezzo particolarmente le più recenti produzioni, gonfiate come sono di parole gratuite, in spregio alle ormai estinte virtù della sintesi, e spesso farcite di cliché triti e ritriti, a quanto pare indispensabili per vendere di più. Per contro, sono un "esaltato" sostenitore, più ancora che delle potenzialità della fantascienza italiana in sé, di quelle della fantascienza europea, che se non si è ancora riuscita ad evolvere al livello ed oltre di quella americana è a mio avviso principalmente dovuto alle conseguenze implicite alla frammentazione linguistica in cui è divisa l'Europa, tema sul quale non mi dilungo perché troppo complesso. Se Tavosanis la gradirà, m'impegno a regalargli una antologia di fantascienza rumena in due volumi, l'uno contenente gli originali rumeni e l'altro le traduzioni in inglese (a cura di N. Lee Wood, moglie di Norman Spinrad), con prefazione di Spinrad, edito da Nemira, che a mio avviso rappresenta una delle migliori cose che una casa editrice europea possa fare per favorire l'evoluzione della science fiction del nostro continente.

Il problema che patiamo nel campo della letteratura di SF, è lo stesso che ci affligge in moltissimi altri campi, ed è quello dell'invasione statunitense. Non sono particolarmente antiamericano, ma non posso fare a meno di notare (e non senza un certo fastidio) che in tutta Europa il cibo-spazzatura dei fast-food americani si afferma a prescindere da una maggior qualità (misurabile della varietà e complessità delle pietanze e dei sapori) rispetto agli alimenti indigeni che a tutti gli effetti esso non possiede. Analogamente, gli Stati Uniti esportano migliaia di ore di audiovisivi ricchi di contenuto quanto un hamburger è ricco di sapore. Se in Italia riusciamo a proteggerci meglio di quanto ci riescano altri paesi da questo imperialismo alimentare, noi siamo però messi assai peggio nei confronti dell'imperialismo audiovisivo (dov'è finita l'ottima tradizionale commedia all'italiana? perché si è estinta? cos'è che l'ha uccisa?). In fantascienza ci è andata peggio che in tutti gli altri campi, ma è un discorso diverso, dato che all'arrivo dall'America della fantascienza il territorio era da noi pressoché vergine. Vero però è che oggi la nicchia ecologica della fantascienza è in Europa così densamente popolata dalle produzioni angloamericane, da soffocare sul nascere pressoché qualsiasi insorgenza di similare letteratura indigena. È un mero problema di ecologia. Stanislaw Lem e pochi altri però dimostrano, con la propria esistenza, che anche da un ecosistema saturo possano scaturire fenomenali novità. Per questo, al naturale pessimismo che le più elementari osservazioni ci impongono, è doveroso contrapporre quel sano ottimismo che in noi si produce quando ragioniamo in termini di ecosistemi culturali, potenzialità statistiche, evoluzione mutagena e buon senso. La mia eloquenza si sta facendo troppo metafisica? Beh, ci si consoli pensando che nel tempo attuale anche la ricerca fisica indulge a fare altrettanto.

E nemmeno ci si rende conto, immagino, che è perlomeno di cattivo gusto far scrivere l'elogio di un'antologia a uno degli autori inclusi nell'antologia stessa. Tanto le lodi sperticate, più o meno con le stesse

parole, verranno ripetute con il lancio della prossima antologia.

Puntualizzo innanzitutto che nessuno "mi ha fatto scrivere l'elogio", avendo io stesso e per mia personalissima idea preso l'iniziativa di scrivere quanto ho scritto, e non vedo perché mai la mia modica presenza nell'antologia (pari ad un trentaquattresimo dell'intero libro, ossia circa il 3% dell'opera) avrebbe dovuto vietarmi di trarre e comunicare opinioni circa l'insieme della stessa.

Riguardo all'allusione (o l'insinuazione) che le mie stesse parole verranno ripetute per la prossima antologia, non è cosa che mi riguardi particolarmente, dato che esse non apparteranno a me. Come Tavosanis riconosce, io mi occupo dell'argomento da anni, eppure mai mi risulta di aver recensito per iscritto alcunché d'italiano (oltre a "A Lucca, mai!", s'intende), né ritengo probabile che mi venga voglia di farlo spesso in futuro. Tendo a fare dell'altro, tutto qui. L'idea che traspare, ovvero che io abbia elogiato come ho fatto l'antologia solo perché essa contiene un mio racconto, è quantomeno ridicola: anche se con notevole rarità, brevi opere mie sono già comparse, in Italia, in antologie e pubblicazioni periodiche, la qual cosa non m'ha mai suggestionato al punto di latrare una mia presunta e risibile riconoscenza profondendomi in servili e ripetute "lodi sperticate". Al contrario, non nego di essermi concesso un furibondo fastidio il paio di volte che ho trovato ottimi miei racconti frammisti in antologia ad immonde porcherie, e ad esse quindi intrinsecamente equiparati. Taccio per pietà i nomi dei volumi incriminati, i quali mi guardo bene dal magnificare, nonostante essi contengano, in mezzo a tanto rumore, anche un paio di miei eccellenti racconti. Ma la mia pietà ha un limite, e allora pubblicamente adesso mi vanto per qualche momento, con raccapricciante orgoglio, d'aver vissuto l'emozione di vedere alcuni miei scritti affiancati alle notevoli opere di autori unici e di inarrivabile statura, del calibro di Pina Mistretta, che certamente chiunque che legge conoscerà, non fosse altro che per il suo esemplare "Morte di un dromedario".

Ciò che Tavosanis dice, vale per chi sistematicamente e indiscriminatamente faccia ciò che io ho fatto una volta sola. Vale per coloro che, per convenienza propria, reale o auspicata, indiscriminatamente lodino ciò che pare loro conveniente lodare (per esempio tutto), così intonando una cantilena che effettivamente non vuole più dire nulla, e nuoce a chi, ascoltandola, non riesca a non crederle. Io ho deciso di cantare le lodi di un singolo libro, per il semplice motivo che, fra tutti quelli che negli anni mi sono passati per le mani, meglio degli altri è rappresentante della fantascienza italiana. Tutto qui. Credo che per un bel po' non vedremo altre antologie di fantascienza italiane di eguale o superiore qualità e rappresentatività. Quindi penso che non mi profonderò poi tanto presto di nuovo in similari "lodi sperticate". E quindi ritengo che chiunque sia interessato ad un quadro d'insieme della fantascienza italiana abbia tutto l'interesse a non perdersi questo libro qua. Esso potrà non piacere a qualcuno, per l'argomento che vi sono nel mondo fantascienze più buone di quella italiana. E cosa mai piace a tutti? Ma chiunque operi la scelta di aggredire la recensione positiva che io ho fatto di "A Lucca, mai!", ha quantomeno il dovere di menzionare, affinché non si pensi che siano ciance a vanvera, un'altra antologia di fantascienza italiana di superiore qualità e rappresentatività.

E credo che siano proprio iniziative del genere a tenere la fantascienza nazionale nel ghetto per militanti in cui spesso si ritrova.

Bah! La metafora del ghetto è pregna di una indole autocommiseratoria nella quale non mi ritrovo. Facendo finta che essa abbia senso, annoto che in tutti i paesi del mondo gli autori di science fiction sono in un ghetto. Ne stanno uscendo forse soltanto adesso negli Stati Uniti, e guarda caso ciò corrisponde ad un immiserimento del livello medio delle opere prodotte... I Grandi Capolavori della SF che oggi unanimemente adoriamo in tutto il mondo sono stati scritti in America quando i vari Asimov, Heinlein, Dick e compagnia bella erano e si sentivano in un ghetto...

Una delle forze che invece ritengo assassinino la fantascienza italiana è proprio quest'umore autocommiseratorio nel quale evidentemente è per molti autori così conveniente calarsi, un'autocommiserazione sterile (come ogni forma di autocommiserazione), per di più solitamente fondata su di una supponenza quasi mai plausibile. Curiosamente, presunzione di eccellenza ed automortificazione convivono in un abbraccio grottesco e fatale, interessante solo, forse, per chi ne finisce preda.

Il mio punto di vista riguardo l'intera faccenda, ricalca perfettamente quello che già fu di Oscar Wilde: in un epoca in cui ogni imbecille è considerato un genio, ho sempre il terrore di non essere incompreso.

Invece che indulgere alla giaculatoria del ghetto, è più opportuno considerare il ruolo della fantascienza nella cultura mondiale nella sua giusta luce. Come recentemente ha osservato Orson Scott Card, la science fiction è la vera letteratura rivoluzionaria di questo secolo. Una letteratura in perenne rivoluzione, una rivoluzione resa permanente dalla crescente dinamica dell'evoluzione umana. Ma la parola "rivoluzione" non è ancora l'approccio migliore per considerare la questione. La cultura umana (così come la società umana, la quale secondo me va considerata come il residuo stabile della cultura umana) è un sistema dinamico non lineare, ovvero fortemente caotico, e va quindi analizzato con i criteri con i quali si analizzano i sistemi dinamici. Ogni sistema dinamico possiede requisiti di stabilità, necessari a mantenerlo coerente. L'evoluzione di un sistema dinamico verso una condizione di complessità maggiore, ovvero verso un diverso sistema dinamico più complicato del precedente, avviene mediante l'inferenza di una certa perturbazione, che non può essere di eccessiva entità, pena la degenerazione della coerenza del sistema. Mi rendo conto di essere piuttosto vago e astratto a questo riguardo, ma ciò che avviene normalmente nella società umana è qualcosa del genere: la cultura consolidata, ovvero l'elemento stabile del complesso sistema dinamico "umanità", viene costantemente perturbato da una modica quantità di innovazione culturale, che violando i precedenti paradigmi (e così assumendo, nell'interpretazione dei colti stabili, valenze di trasgressione) instabilizzano leggermente il sistema "umanità" catalizzandone il progresso evolutivo. Come in ogni sistema dinamico, la perturbazione non può salire oltre una certa soglia, pena la degenerazione del sistema. Ebbene, ciò che noi chiamiamo fantascienza (ovviamente nella migliore accezione di questo strano vocabolo) altro non è che una delle forme nelle quali ci appare la perturbazione che viola la stabilità della cultura consolidata, costringendola ad evolversi. Per definizione, la fantascienza significativa non può quindi aumentare rispetto a una piccola percentuale dell'insieme delle letterature prodotte in un dato momento. Mi rendo conto che nessuno avrà capito un'acca di quanto ho voluto dire a questo riguardo, basti allora sapere che secondo me, in parole povere, qualsiasi intuizione davvero nuova necessita di parecchio tempo per venire digerita dall'umanità (come tutta la storia umana dimostra), e poiché la fantascienza buona altro non è che la vera palestra delle intuizioni umane, ne consegue che migliore un romanzo di fantascienza è, meno persone saranno in grado di apprezzarlo al suo primo apparire. Esso verrà eventualmente digerito, assimilato e premiato con il titolo di opera innovativa e geniale esattamente quando tale non sarà più, perché altri "incompresi" avranno nel frattempo stabilito le nuove frontiere.

Tutto questo rigiro di parole per affermare con molta decisione che per definizione la fantascienza (quella buona, ovvero quella buona e attuale!) non può che rimanere circoscritta ad una esigua percentuale della quantità complessiva degli esseri umani di una società. Questo, per inciso, vale per qualsiasi sfera dell'indagine intellettuale umana. In effetti, considerando le cose nella loro più armonica disposizione, è futile scindere le aree ove la mente umana si sta espandendo, chiamando talune "fantascienza", altre "scienza", altre ancora "fantasy" e la smetto qui perché l'elenco non finirebbe più.

Tornando all'argomento tirato fuori da Tavosanis, però espresso in modo differente: cos'è che giova alla fantascienza italiana, e cos'è che le nuoce? Innanzitutto togliamo la parola "italiana". E allora perché non togliere anche il vocabolo "fantascienza"? Tanto, a cosa serve, oltre che a generare equivoci?

Una domanda geniale che certi personaggi di Asimov ponevano, nella serie di racconti gialli "Il club dei vedovi neri",ognuno degli ospiti che essi invitavano nel loro club esclusivo, era la seguente: "Lei come giustifica la sua esistenza?"

Essere al mondo è una condizione temporanea, e tanto vale che essa abbia un senso finché lo può avere. Sapere il senso di cui la propria vita si vesta, può essere utile, comunque non nuoce. Occuparsi di fantascienza può essere uno dei modi in cui si decide di aver senso mentre si esiste. Dimentichiamo il resto, e applichiamo la domanda asimoviana al nostro contesto: "Cos'avete fatto per giovare alla fantascienza (italiana)?"

Ad occhio e croce, mi vengono in mente solo tre modi principali di fare del bene alla fantascienza (italiana), e li elenco secondo importanza, nonostante l'ovvietà di tutto ciò:

1. Scrivere fantascienza buona (ossia non brutte copie di cliché altrui, idee originali, ecc.) A ciò pensano gli autori, o comunque ci provano.

2. Pubblicare SF (italiana), cercando, dal serbatoio del possibile, di estrarre il materiale più significativo possibile. È quanto fanno gli editori, alcuni meglio, molti peggio.

3. Recensire in modo adeguato quanto sia stato da altri prodotto in materia, veicolare l'informazione circa cosa valga più o meno la pena di leggere, per favorire la scelta migliore di tutti gli appassionati e del maggior numero di esseri umani in genere.

Poiché Tavosanis mi tira in ballo, suggerendo che la mia recensione nuoccia alla fantascienza italiana, devo ancora una volta parlare di me, o piuttosto colgo l'occasione di farlo, perché così mi va di fare, come d'altronde ogni tanto capita a tutti quelli che sono.

Quantunque in questo singolare caso io abbia agito secondo i dettami del terzo modo suddetto, la prevalenza del mio esercizio si svolge nell'ambito del primo modo, sempre suddetto. L'efficienza della mia azione in tal senso mi soddisfa quanto basta per indurmi a continuare, in difetto della qual cosa, ovviamente, smetterei immediatamente. Ritengo che un ragionamento analogo debba valere per tutti quelli che scrivono. I riconoscimenti e i titoli sono un parametro che non mi interessa che di sfuggita, né quando riguardano me, né quando riguardano altri. Se talvolta posso essere tentato di usarli, è solo ad uso e consumo di chi sia sordo e cieco ad altri più significativi argomenti. Se la quantità dell'utenza di ciò che faccio fosse ciò che mi preme, farei da tempo l'attore di film porno. La quantità dell'utenza è tuttavia un parametro molto considerato in società, in virtù dell'effetto collaterale che causa, il quale consiste nel risultato assai pratico di guadagnare parecchio denaro. Ma se il denaro è il fine, ritorniamo all'argomento precedente, tanto vale commerciare in pornografia, e non scrivere fantascienza. Se la fantascienza prodotta è davvero buona, così tornando utile all'umanità e rendendo forse più sensata la vita di chi la scritta, prima o poi renderà inevitabilmente anche il denaro che deve, eventualmente agli eredi di chi l'ha scritta. Considerare gli effetti collaterali di ciò che si fa come la finalità del proprio agire, è un modo perfetto per scivolare in quell'affollata vanità dove si sprecano le vite, a molte delle quali non è neppure mai dato comprendere tale condizione di spreco. Alla fantascienza, letteratura di frontiera, si applicano le leggi che da sempre tangono le arti e le facoltà umane di frontiera. Cos'altro rimane da dire? Alla domanda asimoviana applicata alla fantascienza ognuno può dare per sé e per gli altri la risposta che preferisce, senza che mai nessuno possa davvero avere torto. Tuttavia, alcuni possono avere ragione in modo più significativo di altri. È ridondante che io ripeta quel che penso di ciò che faccio. E poiché sto lesinando risposte, esagero aggiungendo domande: giova alla fantascienza italiana che qualcuno in piena scioltezza parli male di una recensione ad un libro che egli non ha neppure letto? Giova all'umanità legittimare le proprie maldicenze esplicitamente con il trucchetto della generalizzazione? Si badi bene: sto ponendo domande, anche se paio suggerire risposte. Forse che io, a mio piacimento, non opero le stesse generalizzazioni maligne, quando l'ozio mi lascia tempo e voglia di farlo? Se così è, mi sia concesso il beneficio del maggior estro, anche perché se non mi è concesso me lo concedo da solo, come ho sempre fatto e sempre farò.

P.S. Gli autori sono stati retribuiti? Vittorio Curtoni, un cui racconto è stato incluso nel volume, può probabilmente dirci qualcosa in merito. Immagino che se ha contribuito gratis, l'abbia fatto per simpatia (cosa comprensibilissima, visto che Malaguti è un'istituzione, nel campo)... ma mi piacerebbe sapere più nel dettaglio come sono andate le cose.

A tale riguardo posso solo parlare per me, ovviamente. Personalmente ho contribuito per simpatia, per i motivi che dirò fra poco. Ho comunque ricevuto una copia del libro omaggio. Se si fanno un po' di conti, moltiplicando il prezzo di copertina per la tiratura presunta (non la conosco in dettaglio, ma si può immaginare), traendone la percentuale solitamente spettante come diritti d'autore e dividendo questa per il numero degli autori, si giunge ad una cifra all'incirca dello stesso ordine di grandezza del prezzo di copertina del libro che ho ricevuto in omaggio. La mia disposizione a contribuire per simpatia, comunque, nulla a che fare con il fatto che Malaguti sia un istituzione nel campo. Come ho già detto, i titoli che ornano gli esseri umani mi lasciano per lo più indifferente, quando addirittura non mi infastidiscono, cosa che puntualmente accade quando mi trovo a che fare con persone affogate nei personaggi (ovvero "ruoli", ovvero "istituzioni") incarnati, dai quali per invincibile inerzia mai più emergeranno.

Ugo Malaguti, invece, è secondo me una delle figure più romantiche - nell'accezione originaria del termine - che operino nel campo della fantascienza italiana. Chiunque sia dotato di spirito critico vedrà con chiarezza i notevoli difetti che quest'uomo pure palesa. In effetti, per motivi sui quali ora stenderemo un velo pietoso, la gran parte degli umani ricerca e nota nei propri simili soprattutto i difetti, spesso considerando i pregi altrui vere e proprie fonti di disturbo. A me invece delle persone con cui interagisco interessano i lati positivi, e dato che i difetti tendono a darmi fastidio, riduco la mia attenzione ad essi fino allo stretto necessario che basti a proteggermi dalla loro eventuale dannosità.

Ebbene, per nulla interessato ai difetti di Ugo Malaguti, mi si presentano con grande evidenza quegli elementi che suscitano in me la forte simpatia. In un'epoca nella quale editori e curatori di fantascienza sono ormai del tutto schiavi della dittatura del marketing, in cui sugli altari di una maggiore commerciabilità si sacrifica ogni deviazione dai cliché affermati, in cui anche la qualità geniale di talune opere è volutamente insultata da copertine volgari utili solo a smerciarle a qualche deficiente in più, Ugo Malaguti, quasi magicamente, continua da anni, indefessamente, a fare il proprio lavoro esattamente come piace a lui o giù di lì, incurante delle cosiddette convenienze pratiche.

La fantascienza letteraria, dal mio punto di vista, è oggi la sede moderna ideale dell'espressione romantica. Se romanticismo e illuminismo sono categorie che conservano significato, esse sono oggi l'anima della migliore fantascienza. Se le contingenze pratiche scoraggiano le scelte inusuali e ardite, con le quale si devia dal percorso obbligato che il Mercato impone, operare in controtendenza seguendo percorsi inusuali e accidentati diventa un atto poetico. Non subisco il fascino dell'entità deificata chiamata "mercato", l'imprescindibile totem moderno al quale è moda genuflettersi ostentando nel gesto pure una curiosa fierezza. Per contro, tengo a puntualizzare, non subisco neppure il fascino dei poveretti che non san far altro che piagnucolare lamentele contro il "mercato", anch'essi eleggendolo così di fatto al rango di divinità moderna, ancorché malefica. Il mercato è un termine utile da considerare per conseguire risultati concreti di tipo pecuniario, e basta. Non gli riconosco altri valori, né positivi, né negativi. Confondere la convenienza pratica con l'estetica del bello è un trucchetto per gabbare gli allocchi nel migliore dei casi, una miseria intellettuale in tutti gli altri. Piaccia o non piaccia il risultato del lavoro che Malaguti opera in fantascienza, il suo modo di operare trasuda di quell'audacia dei folli che è la quintessenza del vero spirito romantico, il che basta a guadagnarsi la mia simpatia, e con essa la mia disposizione a consentire l'uso di alcune mie opere a titolo gratuito. Sono stato chiaro? Spero di no. Come si è detto, ho sempre il timore di non essere incompreso.

L'altro referente con il quale mi va benissimo collaborare senza retribuzione è Delos. Ritengo Delos fondamentale per lo sviluppo presente e futuro della fantascienza italiana. Il che me lo rende un'entità sufficientemente romantica da suscitare la mia incondizionata partecipazione. E poi Sosio e Pachì sono persone notevolmente amabili, e tutto sommato penso che anche l'amabilità di coloro con i quali interagisco centri qualcosa. Una qualità della quale neppure Malaguti difetta. La qualità del tempo trascorso con persone amabili è molto superiore a quello passato con individui non amabili, per tacere poi degli odiosi. L'empatia, già decantata a suo tempo da Philip Dick, è una forza che vincola meglio di qualsiasi calcolo o convenienza subdola, ed è un sensore che purtroppo non tutti possiedono, e comunque non nella stessa misura e con i medesimi parametri. L'empatia probabilmente si atrofizza e scompare laddove la coazione alle mutue pantomime gerarchiche, così simili alle baruffe che i galli inscenano del pollaio, prevale sugli altri possibili approcci di comunicazione umana, siano tali luoghi consessi reali, virtuali o mentali.

Per concludere questa mia breve incursione nell'annosa polemica che tradizionalmente costituisce la gran parte della discussione fantascientifica in Italia, ripeto in dettaglio la mia opinione circa quanto asserito da Tavosanis riguardo alla mia recensione.

Sebbene io sostanzialmente condivida lo spirito di quanto egli sostenga, dissento notevolmente dall'uso che egli ne fa in quest'occasione. Tavosanis, ertosi da tempo al ruolo di fustigatore della fantascienza italiana, un ruolo nobile e utile nel quale io stesso mi calerei se non dovessi già dedicare tutto il mio tempo libero all'ozio, un ruolo per il quale gli riconosco, da anni, una stimabile competenza, unita alla intransigenza che ci vuole e ad una stoica costanza, il tutto non disgiunto da una gradevole intelligenza che non guasta, pare tuttavia questa volta essere caduto vittima della propria coazione a fustigare, trascurando per l'occasione l'idoneità del suo bersaglio. Un po' come il grande fornicatore che, nella sua coazione a copulare, non si accorga che sotto di lui sia per caso finita una bambola gonfiabile. Oppure quei simpatici cagnolini maschi (spesso dei barboncini) nei quali tutti noi ci siamo una volta o l'altra imbattuti, che in preda ai loro impietosi ormoni cercano di accoppiarsi con una delle nostre umanissime gambe, suscitando in noi quel comprensibile imbarazzo venato di una notevole pena verso il cane in errore, del quale comunque sappiamo bene dimenticarci in fretta.

PARTE SECONDA: LA COMODITA' DI ESSERE MORTI ("IO SONO VIVO E VOI SIETE MORTI")

Tanto sappiamo dimenticarcene in fretta che ora muto senz'altro il tema del mio divagare per irridere un po' un'altra categoria di fatti che mi sconcertano.

Ho recentemente partecipato ad un convegno su Philip K. Dick. E' una cosa che può succedere a tutti, anche a quelli che hanno letto Dick. Dico così, perché il convegno non era disadorno, visibilmente, di curiosi individui che lì udivano parlare di Dick per la prima volta, o la seconda. Non entro nel merito dei particolari circa di quale convegno si sia trattato, quando si sia tenuto dove, eccetera. Il mio interesse precipuo non è quello del cronista di un evento, ma dell'analista dell'archetipo di un rituale. Ciò che ho notato in quel convegno è probabilmente un pattern (come cavolo si dice "pattern" in italiano? non trovo una traduzione soddisfacente!) che si ripresenta in qualsiasi convegno del genere, e anche altrove.

Il primo insight... (e come cavolo si dice "insight" in italiano?! Illuminazione? Ma che schifo! E poi ci si lamenta che la lingua italiana si imbastardisce riempendosi di parole inglesi...)

Cambiamo formulazione: mi resi ben presto conto, d'un tratto, in un improvviso lampo di nuova consapevolezza interiore (tutto ciò per sostituire la sintetica parola "insight"), che se per caso Philip K. Dick fosse passato da quelle parti e avesse provato ad interagire con il convegno, non ci sarebbe riuscito. Non si sarebbero accorti di lui. Al massimo, lo avrebbero percepito come una piccola e irrilevante fonte di fastidio. Tutti questi esseri umani si erano faticosamente riuniti per celebrare l'esistenza di una persona della quale non si sarebbero accorti se l'avessero avuta fra loro. Qualcuno argomenterà: la mia asserzione è opinabile. Sicuro che è opinabile. Tuttavia è vera e a chi non è in grado di comprenderlo da solo (o quasi da solo) nessuno potrà mai essere in grado di spiegarlo. E a coloro che, incapaci di comprenderlo, gradirebbero però crederlo, forniamo il sostegno di un parere autorevole (i pareri autorevoli servono proprio a convincere chi non abbia gli strumenti per comprendere, avendo in cambio, innatamente, quelli per credere). E' il parere autorevole di Norman Spinrad. O creduloni, ascoltate: ero dunque seduto vicino a Spinrad, quel noiosissimo mattino nel quale schiere di tronfi dickologi si avvicendavano sul pulpito a recitare la loro parte di liturgia, inferendo ai devoti in ascolto elucubrazioni per lo più gratuite (proprio come la nostra polemica o anche di più), quando Spinrad, voltandosi verso di me con una bellissima luce negli occhi mi dice "but he's dead." ("ma lui è morto").

Era vero. Anzi, era l'unica cosa vera detta finora in quel mattino altrimenti mortalmente noioso. Philiph K. Dick era morto. Nessuno pareva rendersi conto di questo importantissimo fatto. Parlavano di Dick come se Dick fosse vivo. E noi sappiamo che convegni su P. K. Dick non si effettuavano quando Dick era vivo davvero, e se per sbaglio ne fu effettuato qualcuno, i dickologi che adesso pontificavano non c'erano.

Un'osservazione diventa quindi palese: quando Dick era vivo davvero, egli non era percepibile da quasi tutti quelli che erano al convegno su Dick a parlarne; gli stessi, invece, percepiscono l'esistenza di Dick solo ora che lui è morto, cioè proprio quando egli non esiste più.

E' un'osservfazione sconcertante, che diviene ancora più importante se notiamo come questa sia generalmente la regola che vale per gran parte dell'umanità. Abbiamo sott'occhio mille esempi. Uno per tutti: il grande filosofo Karl Popper, deceduto pochi anni fa, era in vita noto e conosciuto solo ad una piccola percentuale di intellettuali. Ora che è morto, tutti si accorgono che esiste, dedicandogli ampi spazi nelle pagine culturali dei giornali quotidiani, dentro a riviste che generalmente si presentano con donne nude in copertina.

E al convegno su Dick, tutti si accorgevano dell'esistenza di uno che era morto da un bel po', senza accorgersi per esempio dell'esistenza di un genio ben vivo e che fra l'altro era lì. Parlo di Spinrad. Spinrad è uno dei più geniali ed originali scrittori viventi di science fiction del mondo. A quel convegno, era esibito e percepito come un soprammobile. Quando egli parlava, gli interlocutori attendevano con abissi d'incomprensione negli occhi ed un formale sorrisino in bocca che egli finisse, per quindi tornare con sollievo alla loro lieta celebrazione del morto. Dick il morto.

Viene allora da chiedersi perché.

Perché quella tribù di tardivi celebratori di Philip Dick si accorgeva di Dick solo adesso che egli è ben morto? Perché non si accorgevano di Dick quando egli era vivo? Per quale motivo essi non potevano accorgersi di Dick quando egli era vivo, un impossibilità dimostrata dalla loro incapacità di accorgersi adesso di chi sia geniale e vivo oggi, per esempio Spinrad, se non relegandolo al ruolo di pregevole soprammobile ornamentale?

Qual'è la differenza fra Philip Dick vivo e Philip Dick morto, quella grande, importantissima e imprescindibile differenza che di colpo rende Philip Dick percepibile da questa massa di suoi adoratori e celebratori?

Ebbene, come diceva Sherlock Holmes, quando si è scartato l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve corrispondere alla verità: l'unica differenza fra Dick vivo e Dick morto è la Morte (una risposta lapalissiana, come quando si scopre che l'assassino era il maggiordomo). Mai essendo stato morto da vivo, Dick non era percepibile ai suoi attuali celebratori. Da quando è morto, è diventato percepibile, senza più smettere di esserlo. Quindi risula vero:

1. assenza di comunicazione da Dick-vivo verso gli attuali-celebratori-di-Dick

2. presenza di comunicazione da Dick-morto verso gli attuali-celebratori-di-Dick

Ciò significa che nel caso 1 è assente un minimo denominatore comune fra Dick-vivo e gli attuali-celebratori-di-Dick, un'assenza che evidentemente è la causa dell'impossibilità di una comunicazione dalla categoria "Dick-vivo" alla categoria "attuali-celebratori-di-Dick". Nel caso 2, invece, data l'esistenza osservata di tale flusso di comunicazione, se ne trae che esiste un minimo denominatore comune che prima non c'era. Dato che l'unica differenza fra il caso 1 e il caso 2, fra il prima e il dopo, è la Morte che d'un tratto ha iniziato ad essere propria di Dick, ne consegue che il minimo denominatore comune di cui abbiamo parlato è proprio la Morte. La conseguenza logica che emerge da questo ragionamento è che le persone che appartengono alla categoria "attuali-celebratori-di-Dick" sono necessariamente morte.

Certo questa è una rivelazione che stupirà qualcuno, e infastidirà i morti che non sanno ammettere di esserlo. Il morto è infatti colui che per eccellenza non sa di esserlo. Tanto uno è morto, tanto il suo pensiero è fermo. La difficoltà che abbiamo a ragionare in questi termini della morte, è che c'è in giro molta pressapochezza su ciò che essere morti significhi, ed in genere tutti hanno in testa solo preconcetti a riguardo, e soprattutto i morti non sanno prescindere dai preconcetti, e soprattutto dai preconcetti sulla morte.

La decomposizione è una qualità molto palese (sebbene poco duratura) della condizione di morto, tuttavia essa può iniziare molto tempo dopo il decesso. Anche l'immobilità è una qualità popolare fra i morti, tuttavia, quantunque pochi lo sappiano, neanch'essa è requisito obbligatorio per decretare lo stato di morte di qualcuno o qualcosa. Un albero è decisamente più immobile di un cadavere brulicante di vermi, eppure è certo più vivo (del cadavere, non dei vermi). Nel suo ottimo romanzo "I testimoni di Joenes" Robert Sheckley (a proposito: dovrebbe essere in commercio proprio adesso, febbraio 1996, in Urania, l'eccellente romanzo di Sheckley "Scambio Mentale", contenente anche una recentissima intervista a Sheckley effettuata dal sottoscritto assieme a Franco Forte, un'ottima ragione d'acquisto anche per chi avesse già letto il romanzo; scusate l'intrusione pubblicitaria) fece l'arguto esempio, proprio a sostegno della medesima tesi, che una gallina alla quale sia mozzato il capo continua a scuotersi per qualche tempo nelle contrazioni automatiche della sua muscolatura, senza che per questo essa sia più viva, e che similmente molti esseri umani, morti in giovine età, continuino a muoversi meccanicamente ancora per qualche decina di anni per la contrazione automatica della loro muscolatura, senza che ciò possa ad alcun titolo essere ancora chiamata "vita".

Tipico di ogni morto è di essere completamente schiavo del proprio ruolo. Nessuno che stia marcendo smette di farlo prima che vermi e batteri abbiano finito il banchetto. Nella fase della pre-decomposizione la servitù coatta verso il proprio ruolo, sebbene essa sia appena meno palese, è egualmente ineludibile.

Durante il suddetto convegno su Philip Dick, i morti ubbidivano nella schiavitù della loro condizione agli imperativi del loro ruolo secondo un copione che in ogni parte del mondo i morti in pre-decomposizione fedelmente ripetono.

La liturgia imponeva l'applauso indiscriminato al termine di ogni intervento verbale del celebrante di turno, e poco importa che a parlare - o a sproloquiare - ci fosse ogni tanto anche qualcuno che di Philip Dick avesse soltanto sentito parlare, e che non di meno ritenesse di aver qualcosa da dire in memoria dello stesso. Come quella donna... una giornalista, mi dicono... che in apertura d'intervento dichiarò apertamente di non avere mai letto un libro di Dick (né, se è per questo, di science fiction e dintorni), e quindi torturò i pochi pensanti fra i presenti con la più insignificante sfilza di idiozie sulla reincarnazione che mi sia mai toccato udire... per infine ottenere anche lei l'applauso dei morti in sala, un applauso identico a quello riservato agli altri oratori, indistinguibile da quello rivolto a Norman Spinrad e Gabriele Salvatores, che non essendo morti qualcosa di sensato invece l'han detto, ma non se n'è accorto nessuno.

Nessuno lì si rendeva conto che Philip Dick era morto ora che era morto per lo stesso motivo per il quale non si erano resi conto che era vivo quando era vivo. Un'atmosfera per certi versi da incubo, così assurda da sembrare paradossalmente un parto stesso della mente malata di Dick. Un capolavoro di assurdità. Una realtà rovesciata rispetto a ciò che secondo ragione può dirsi sensato. Una bolla di realtà, per nulla inusuale, dalla quale Dick-vivo sarebbe stato rigettato, qualora v'avesse partecipato in incognito, nella quale Dick-vivo avrebbe non a torto scorto trame persecutorie nei suoi confronti, rese vieppiù grottesche dal fatto che Dick-morto era il totem d'adorazione al centro della bolla. Un'assurda bolla di realtà nella quale Dick-vivo avrebbe compreso di poter rimanere solo a patto di calzare anch'egli il ruolo di celebratore di Dick-morto, un'implicazione gravida di ulteriori storture di senso: Dick-vivo, che per non essere estromesso dalla liturgia si piega ad adorare Dick-morto, entra così a pieno titolo anch'egli nella categoria dei morti (a meno che egli non finga di essere morto, un'iniziativa destinata comunque a fallire, poiché chi è vivo non sa star fermo (in senso lato) e prima o poi inevitabilmente si tradisce). Dick-vivo diventa così Dick-morto, ma non lo stesso Dick-morto adorato dagli altri (o invece sì?), piuttosto, diventa Dick-morto2, un'entità parallela al se stesso adorato.

Tutto ciò è molto triste.

Quindi ci mancherebbe ancora che poi qualcuno, approfittandosi del fatto che oggi giochiamo al gioco della polemica gratuita, credesse utile intervenire a chiosare su quanto egli non si sia divertito a leggere di quanto io mi sono appena divertito a scrivere.

E allora, poiché m'infastidisce un po' chi calpesta i miei laboriosi argomenti con le sole rozze zampe della sua zotica e presuntuosa incomprensione, non fosse altro perché ciò mi stropiccia fuggevolmente l'umore, introdurrei a beneficio di chi lo gradisca qualche altro "parere autorevole", utile a corroborare le nostre divagazioni a beneficio di chi le comprenda o voglia credere in esse, o a dimostrare a tutti gli altri infelici che io non sono scemo da solo, se non fosse che nel bel mezzo stesso di questa frase cambio repentinamente parere e decido, decisamente e definitivamente, che il fastidio di utilizzare "pareri autorevoli" è ben superiore a qualsiasi fastidio ricavabile dalla scelta di non utilizzarli.

Lasciandovi a meditare sui significati reconditi della mia precedente frase, o a cercare di dimenticare la stessa in fretta, dichiaro conclusa l'odierna e inconsueta abbuffata di polemica gratuita. Buona digestione a tutti.

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