Delos 22: Antonio Bellomi di Valerio Evangelisti

ANTONIO BELLOMI,

IL FANCIULLO DELLO SPAZIO


La pregevolissima storia della fantascienza italiana di Vittorio Curtoni (Le frontiere dell'ignoto, Editrice Nord) contiene un'unica omissione degna di nota. Salvo una sintetica menzione in nota, non dedica nessun capitolo alla copiosissima produzione di Antonio Bellomi, il più esuberante, entusiasta e prolifico scrittore, curatore, agente letterario, editore, fan, promotore e chi più ne ha più ne metta della nostra sf.

Sospetto che l'omissione di Curtoni sottintenda un giudizio critico sfavorevole (non certo esteso al piano personale, visto che è assolutamente impossibile non voler bene a Bellomi). Personalmente, invece, valuto come importante - e non solo sotto il profilo quantitativo - l'apporto di Bellomi alla fantascienza nazionale. Mi sia consentito, dunque, tessere le lodi di un personaggio troppo trascurato, e a suo modo inimitabile.

Bellomi riveste con grande dignità e con grande talento il ruolo che, in altre letterature, è stato ricoperto dai Vargo Statten, dai William Voltz, dai B.R. Bruss, tutti comunque meno dotati di lui. La sua bibliografia fantascientifica - ma ha scritto anche western, horror, polizieschi e, come si dirà, i racconti di Barbie! - riempie pagine e pagine, e tocca riviste che vanno dalla prestigiosa "Futuro" all'oscuro (per i non diretti interessati, è ovvio) "Giornale del Termoidraulico". Il fatto è che Bellomi produce letteratura fantastica con ritmi salgariani e, se ancora non ha emulato Lope de Vega, che scriveva una tragedia al giorno, o Simenon, che in gioventù produceva un romanzo al mese, è solo perché distratto da attività parallele di traduttore (tra i migliori sulla piazza), talent scout retrospettivo (alla ricerca sui mercati esteri di romanzi dai diritti scaduti per editori squattrinati), curatore di programmi informatici, editor, sceneggiatore di fumetti e altro ancora.

Prima di continuare, devo premettere che considero la fantascienza sostanzialmente una letteratura popolare, e come tale non giudicabile, salvo un pugno di eccezioni, secondo i metri applicabili alla letteratura sedicente "alta". Tuttavia aggiungo subito che non vedo simile classificazione come una condanna, bensì come un titolo da rivendicare con orgoglio. Salgari era un romanziere popolare, D'Annunzio no. Ebbene, chi dei due viene letto ancora oggi? Chi dei due è ancora in grado di far gioire, sognare, partecipare, evadere? Chi dei due è capace di suscitare un coinvolgimento che sconfina nella felicità assoluta? Queste sono tutte prerogative della letteratura "di consumo", non nobile ma vitale: caratteristiche preziose, di valore inestimabile per la stessa formazione umana dei lettori. Viva dunque Ponson du Terrail, Conan Doyle, Allain e Souvestre, Leroux, Leblanc, Robert Howard, Edgar Wallace, Vargo Statten e Zane Grey. E viva Antonio Bellomi, maggior rappresentante italiano, nel campo della fantascienza, di questa nobile stirpe di incantatori.

Non proverò nemmeno a descrivere la carriera di Bellomi. Laureato in matematica, comincia giovanissimo a scrivere racconti di sf per "Oltre il cielo" e la menzionata "Futuro". Pubblica un primo romanzo a puntate su "I Romanzi del Cosmo" (Il pianeta oscillante, 1966, noto anche come I figli della galassia), poi un secondo, col proprio nome in copertina - cosa rara in quegli anni in cui gli italiani dovevano ricorrere a pseudonimi - sull'ultimo numero della collana (L'ultimo domani, 1967). Contrariamente a quanto malignamente è solito dire Vittorio Curtoni, tra l'apparizione del romanzo e la chiusura di "Cosmo" non c'è nesso diretto.

Seguono decine e decine di racconti, talora ospitati dalle rivistine ultrapopolari che Bellomi crea senza sosta, a partire dagli anni '70: "Altair", "Quasar", "Gemini", "Galaxis", "Verso le stelle", "Spazio 2000", "Solaris", "I grandi della fantascienza", "Star Trek" e soprattutto quella a lui più cara e di maggior successo, "Perry Rhodan". Se il famoso serial tedesco è un po' il fiore all'occhiello di questa debordante produzione cartacea, il più caratteristico e "bellomiano" è "Altair". Non solo vi appare un romanzo di un misterioso (ma non poi tanto...) Jack Azimov, subito divenuto leggendario nella storia degli pseudonimi; ma viene persino ripubblicato tale e quale I giganti immortali di un sedicente Hugh Maylon - in realtà un juvenile, assai chiaramente ispirato a I giganti di pietra di Donald Wandrei e già comparso su "I Romanzi del Cosmo", di Ugo Malaguti, uno dei più noti autori ed editori italiani (circostanza peraltro accuratamente taciuta nella riedizione). A questo punto è chiaro come Bellomi sia capace praticamente di tutto, e ciò basterebbe a farlo entrare nel mito.

Del resto, solo un maestro dell'exploitation avrebbe potuto far apparire su "Solaris", a firma del regista "Lewis Coates" (Luigi Cozzi), una pazzesca novelization del film "Scontri stellari oltre la terza dimensione", a sua volta pazzesco (non lo dico in senso necessariamente negativo). E come non chiamare maestro chi, mentre si dedica a queste bizzarre operazioni, riempie le edicole di collane intitolate "Horror Story", "I grandi detective", "Il giallo d'epoca", "Brivido giallo", "Edgar Wallace", "Top Secret", "Rocambole", "I classici del giallo" e via enumerando? Tutte rigorosamente stampate su cartaccia, con copertine tanto orrende da ferire gli occhi.

Però attenzione. Tra un Jack Azimov e un Vargo Statten, Bellomi è il primo a proporre in Italia Green Mars di Kim Stanley Robinson, a quel tempo autore sconosciuto, ma oggi caposcuola osannato della nuova fantascienza. Lo stesso vale per Lucious Shepard, per David Gerrold e per tanti altri: un'intera serie di scoperte forse involontarie che Bellomi è troppo modesto per rivendicare, e che altri sono troppo sussiegosi per riconoscergli. Il fatto è che il nostro, quotidianamente alle prese con la sua caotica lotta per l'esistenza, è uomo tutt'altro che privo di gusto. Come narratore, poi, è a mio parere uno dei più abili in circolazione, e l'unico vero specialista italiano di sf avventurosa.

Ma prima di venire al Bellomi di serie A, mi si permetta di soffermarmi ancora per un poco sulle dolci bizzarrie commesse dal personaggio nel pittoresco mondo della serie B. Ho detto della sua attività di agente letterario. In questo campo, ritroviamo la stessa affascinante schizofrenia dimostrata quale curatore. Da un lato Bellomi diventa agente italiano di una stella di prima grandezza quale Van Vogt. Dall'altro, cura la diffusione delle opere del citato Vargo Statten e di Robert Lionel Fanthorpe. Il primo è stato, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, un fabbricante britannico di romanzi in serie, tipicamente basati su un'atroce minaccia gravante sull'umanità e su un'invenzione che, messa assieme in quattro e quattr'otto, permette di scongiurarla. Il nome del secondo, un insegnante inglese di scuole per dirigenti aziendali prestato temporaneamente alla sottoletteratura, suonerà praticamente sconosciuto al lettore odierno di sf. Eppure ebbe il proprio momento di gloria; e di gloria tutto sommato duratura, se la sofisticata rivista dei cyberpunk statunitensi Sf Eye, nel suo primo numero, si premurò di analizzare il romanzo fanthorpiano Galassia 999 (apparso in Italia ne "I Romanzi del Cosmo", ça va sans dire) quale peggiore opera di fantascienza della storia.

Va detto che Galassia 999 non è affatto così brutto. Va detto anche che la collezione di Sf Eye presenta un buon numero di articoli in cui l'abbondanza di citazioni disparate e poco controllate viene spacciata per raffinatezza culturale, con effetti risibili per il lettore europeo di medio livello intellettuale. Va detto, infine, che assai spesso l'aggettivo post-moderno cela il tentativo di far passare la futilità per intelligenza, in piena adesione alle mode del decennio in corso e di quello trascorso. Di fronte ad atteggiamenti così ipocriti, un autore cialtrone come Fanthorpe, che si presenta come cialtrone e non pretende di essere nulla di più, rifulge per onestà e per chiarezza d'intenti, sinceramente e dichiaratamente gastronomici.

Chiuso l'inciso torniamo a Bellomi, che, se si è capito il personaggio, non poteva non divenire l'agente di scrittori tanto sgangherati e tanto simpatici. Tuttavia, come scrittore in proprio, Bellomi è un'altra cosa. Dalla sua penna ci si può aspettare il peggio (come è inevitabile in chi ha fatto proprio il motto nulla dies sine linea), ma anche il meglio. Ed è quest'ultimo che prevale.

Di recente i lettori di "Urania" hanno avuto il piacere di leggere, nella collana "Millemondi", il romanzo L'impero dei Mizar, certo il migliore di Bellomi, già pubblicato anni fa da una piccola casa editrice e passato inosservato. Bene, chi altri, in Italia, è capace di descrivere con altrettante efficacia una battaglia galattica tra migliaia di astronavi, far palpitare il lettore per le manovre dei piloti, dipingere scenari grandiosi a base di raggi della morte ed esplosioni multicolori? Il tutto narrato con un linguaggio piano ma efficace, terso, elegante, che pochi professionisti possono vantare.

Ingenuità? No, è poesia. E' lo sguardo emozionato di uno scrittore che ha saputo conservare lo sguardo limpido di un bambino, e con quello contemplare con gioia rapita mondi rutilanti, meravigliosi giochi di luce, universi intrisi di fascino e di avventura. Per leggere Bellomi occorre lasciarsi andare, tornare fanciulli, condividere la sua gioia di narratore di favole smisurate. Allora diventa facile sfiorare una felicità che si credeva dimenticata, e che invece sopravvive in qualche angolo delle nostre personalità divenute col tempo troppo complesse.

Signori, la fantascienza, lo si ammetta o meno, è nata così, e inizialmente ci è piaciuta per questo. Per fortuna esiste un Bellomi a ricordarcelo.