Negli anni Quaranta i quotidiani americani vanno matti per Li’l Abner, la striscia satirica scritta e (magnificamente) illustrata da Al Capp, che racconta le selvagge comunità dei monti Appalachi.

Nella Dogpatch di Capp troviamo un campionario di degenerazioni ignote anche a Lombroso. Gli uomini del villaggio sono meno furbi dei maiali con cui convivono. I bambini bazzicano la clava più dell’abbecedario. Le donne se non hanno fisici da dea tipo Daisy-Mae Yokum, sono bidet umanoidi come Sadie Hawkins, la zitella ispiratrice dell’annuale caccia allo scapolo.

Il repellente dunque è pane per i denti di Al Capp. L’orrido lo ispira.

Tuttavia, anche l’amore per l’eccesso può avere un limite e il suo si chiama Lena the Hyena.

Nel 1946 il disegnatore introduce nella strip la “donna più orribile del mondo”, andandola a pescare dai ghiacci della Bassa Slobbovia dove vive in compagnia di orsi, disgrazie e zoticoni.

L’origine DOC basterebbe per ispirare una pin-up degna della suocera di Cthulhu, ma all’idea di mostrarla, Capp nicchia e tergiversa. Mantenere il mistero sulla slobboviana sembra divertirlo, perciò sceglie di impedirne la vista ricorrendo a mille fantasiosi sotterfugi.

Per un po’ il gioco funziona. La curiosità finisce poi col diventare pressante, per cui l’autore è costretto a rivelare l’indescrivibile assumendosi il rischio di un clamoroso tonfo.

Cosa può escogitare Capp per cavarsi di impaccio?

Il vecchio marpione ha un colpo di genio. Rivolgendosi ai suoi stessi lettori, indice un concorso nazionale di disegno che dia un volto alla Hyena.

In palio ci sono 500 dollari, l’onore della copertina di Life Magazine e così chi s’è visto s’è visto.

Purtroppo ci è dato solo d’immaginare la fiera di orrori che si scatena nell’autunno 1946. Il grande Carl Barks propone una guercia da brivido ma fa cilecca. Jack Cole l’autore di Plastic man, getta altrettanto la spugna. Soltanto un partecipante su mezzo milione (!) convince all’unanimità i giudici Salvador Dalì, Boris Karloff e Frank Sinatra centrando l’obiettivo.

Il fortunato uomo è Basil Wolverton e la Lena che presenta è talmente eccessiva da surclassare pure peggiori standard Dogpatchesi.

Come c’è riuscito? Semplice. Lui è un professionista che sgobba da 21 anni nel campo della stampa popolare, alieni, protoplasmi e freaks gli ballano davanti agli occhi sei giorni su sette.

Se parliamo di mostri e caricature, gente, state certi che si pesta lo zerbino di casa sua.

Nato nel 1909, nonostante il nome impegnativo da Metropolita bulgaro, Basil si dimostra più portato al mondo dello spettacolo, esibendosi come comico sulle tavole del vaudeville e in un suo show radiofonico. A 16 anni vende le prime tavole a un sindacato di distribuzione, disegnando da autodidatta, nel 1929 il suo eroe Marco of Mars non vede la pubblicazione a causa del crescente successo di Buck Rogers. Andrà meglio con la successiva serie Spacehawk, che esordisce nel 1939 su Circus Comics e torna rinnovata nel giugno 1940 su Target Comics.

L’esordio del Falco Spaziale parte in sordina, come personaggio di contorno nella rivista del supereroe The Target. Pian piano, però, Wolverton si conquista il favore del pubblico, intrigandolo con questo eroe spiccio che pattuglia il cosmo senza un partner, o una base fissa.

Scopo nella vita: far giustizia.

Modalità: in solitaria.

Strumento operativo: botte da orbi.

Come si vede, una psicologia essenziale, più vicina ai detectives di Black Mask che alle atmosfere di Weird Tales. Ma se la linea d’azione di Spacehawk resta hard-boiled, la fantasia dei disegni è prodigiosa, contraddistinta da ambienti tra l’organico e il minimale, più elaborate creature aliene e un segno che se ne frega del realismo, reinventando la figurazione a modo suo come un Gauguin del fumetto.

Intendiamoci. Il buon Basil è lontano anni-luce dalle finezze di Raymond o di Frank Godwin, il suo punto di forza, invece, è una sorta di goffaggine funzionale, ritrovabile (con meno genialità) nel William Moulton Marston di Wonder Woman e ancora a pieno regime nei futuri disegnatori underground.

La maniera di Wolverton

è così, scoppiettante come i mortaretti di Capodanno e pesantuccia come un dessert dell’Alto Cosentino, una grevità che fa storcere la bocca all’essenziale Jules Feiffer, fino a fargliela definire “ugly” (orribile).

Conoscendo l’autore di Bernard Mergendeiler, un giudizio così tranciante non stupisce. Il gusto di Wolverton viaggia su binari troppo camp e troppo ingenui per poter sedurre un intellettuale. Il pubblico al contrario ne viene sedotto eccome e apprezza Basil, che, tra vari progetti, dà il via alla serie comica di Powerhouse Pepper, il muscoloso pugile dalla testa a siluro.

Le avventure del boxeur appaiono per otto anni su un albo della Timely, l’antenata della Marvel. Farsesche e parodistiche, le tavole del personaggio sembrano prodotte da un Segar flippato e sotto LSD, posseduto dallo spiritaccio di Robert Crumb.

Nessuna forzatura. L’associazione è tutt’altro che peregrina, perché i semi della follia Wolvertoniana danno frutti lontani, segnando autori contemporanei come Dennis Kitchen, Daniel Clowes o Charles Burns, oltre a fertilizzare sulla breve distanza le meningi di Harvey Kurtzman e Will Elder – creatori della mitica Mad.

Weird e comicità, i due poli magnetici del Wolverton-pensiero, dopo la vittoria del concorso di Capp si fonderanno in una rinnovata produzione, in cui il suo stile si approfondisce, s’ispessisce e codifica in una scuola che prenderà il nome di “Spaghetti and Meatball”.

Roba dietetica, al solito.

Con questa formula costituita da esasperazioni volumetriche e ironia sgangherata, vengono fuori le sue famose caricature, una galleria unica di esplosioni creative proseguita per anni sulla rivista Life e su Pageant.

Le “facce di Wolverton”, alla pari delle arboriane “facce di Fellini”, fanno epoca. La scia su cui si inseriscono da protagoniste è la nobile storia della caricatura.

Coi loro volti plissettati, le narici accoglienti e i nasi a triplo avvitamento carpiato, con quegli occhi crepati che scoppiano, i denti a scalpello e i capelli a forma di vermicello scotto, i suoi disegni proseguono le storpiature del Guercino, sono surreali quanto i deliri di Bosh, raccontano la ridicolaggine umana come Leonardo e Daumier.

Che possa piacere o meno, Basil è ingombrante. Come capita ai grandi precursori, si finisce col trovarlo dappertutto, nel tempo e nello spazio.

Dopo aver dato il “la” alla nascita di Mad, ne diventa una delle colonne dal numero 10, con una presenza parsimoniosa e determinante che lo farà definire dal New York Times “il Michelangelo” del magazine.

Produttivo e inarrestabile, il suo lavoro continua negli anni ’50 con la Atlas (altra pre-incarnazione Marvel), seguendo l’onda del forte interesse dei lettori per l’horror. Un invito a nozze per gli incubi minuziosi del disegnatore. In poco meno di una ventina di albi, l’immaginario b-movie delle storie prende il volo grazie alle non comuni capacità grafiche.

Sfilano mostri della palude dettagliati e tridimensionali, donne-robot dai tratti allucinanti, pipistrelli venusiani, uomini-granchio, tutto un apparato di temi nati sulla zona di confine tra horror e la fantascienza. Soggetti che si avvalgono anche di due contributi dello scrittore Daniel Keyes, l’autore di Fiori per Algernon.

Nel 1955 Basil Wolverton si allontana dal fumetto, lasciando un’influenza che si estende anche al figlio Monte, ottimo prosecutore della follia grafica di famiglia.

L’Harvey Award lo premia insieme a Jack Cole nel 1991 inserendolo nella Jack Kirby Hall of Fame, mentre numerose raccolte e ristampe ne ripropongono l’opera con edizioni in più volumi, tra le quali ricordiamo il recente Spacehawk della Fantagraphics Books.

La rivista italiana Horror (Comic Art edizioni) ci introduce al suo mondo visionario nel 1990 con la pubblicazione di un paio di storie brevi e Viva Comix edita nel 2001 il libro Caricature, a cura di Enrico Sist.

Di tutta la sorprendente carriera di Wolverton, ciò che alla fine stupisce di più è la parentesi del suo ritorno ai comics, avvenuta negli anni Sessanta con una produzione alquanto inaspettata: la storia della Bibbia in sei volumi.

Il devoto Basil, battezzato nei ’40 in una chiesa cristiana evangelica, realizza infatti un’opera d’ispirazione religiosa dopo anni spesi a disegnare mostri e zombies.

Dalle salme ai salmi, da Alien ad Amen.

Anche Crumb, comunque, gran sballatone e visionario in gioventù, si lascerà alle spalle le intemperanze di Fritz the cat e di Mister Natural per pubblicare nel 2009 la graphic novel biblica The book of Genesis.

Che trasformazione…

Se prima o poi in libreria ci dovessimo imbattere nella “Vita di Padre Pio” illustrata da Robert Kirkman non preoccupiamoci di aver sbagliato universo. A quanto pare è la prassi.