E se l’ottimismo a tutti i costi, unito alla volontà di sottolineare sempre e comunque le buone notizie, nascondesse in realtà una delle più subdole armi di sopraffazione usate dal potere nei confronti delle persone, ben disposte a piegare il capo di fronte a spiragli di luce, però tanto forti da abbagliare la vista? E se si riuscisse a rendere obbligatoria l’assunzione di sostanze euforizzanti, capaci di annullare qualsiasi barlume di pensiero critico?

Benvenuti nel mondo di We Happy Few, l’originale roguelike dello studio canadese Compulsions Games che unisce in sé le caratteristiche dei giochi di avventura, ma anche dei survival, in un’ambientazione 3D che cambia di volta in volta e che può così essere esplorata ripetutamente, in maniera non lineare, provando a ogni partita a sorprendere. Ricominciare il videogame, che non è mai perfettamente uguale a prima nel suo svolgimento, secondo gli autori offre un ulteriore stimolo ulteriore per dipanare, tassello dopo tassello, il mistero che avvolge l’elegante cittadina che fa da sfondo a We Happy Few, un titolo che per la sua ricercatezza ha ricordato a molti subito le atmosfere di Bioshock.

L’alone sinistro e decisamente folle che aleggia tra i personaggi è stato associato anche alle esplosioni di violenza di Arancia meccanica, mentre i messaggi trasmessi sugli schermi all’interno delle case e lungo le vie dall’enigmatico Uncle Jack, come pure il camuffamento adottato dai personaggi, riecheggiano V for Vendetta. Insomma, un gioco che nasconde dietro di sé un’infinità di riferimenti, veri o presunti, un po’ come gli orribili segreti celati dalle sorridenti maschere indossate dagli educati abitanti della città modello di Wellington Wells.

Quei favolosi anni sessanta

La citazione che compare in apertura del trailer proiettato all’ultimo E3 di Los Angeles (“Happy people have no history”) è tratta da una riflessione ricorrente nell’opera di Lev Tolstoj, che a sua volta riprendeva un proverbio francese sulla sostanziale assenza di eventi – interessanti da raccontare – nell’esistenza delle persone felici. Il titolo del videogame richiama invece il celebre discorso di San Crispino pronunciato alla vigilia della battaglia di Azincourt da re Enrico V nel IV atto dell’omonimo dramma di William Shakespeare. Pochi gli uomini schierati contro il nemico francese, ma felici specialmente perché convinti di combattere per una causa giusta e come tali degni di essere ricordati dai posteri. Il concetto di felicità, nelle sue diverse, anche ambigue connotazioni, viene quindi ribadito fin dall’incipit del gioco, ambientato non a caso negli anni Sessanta, quelli vissuti sul filo del rasoio rappresentato dalle minacce apocalittiche della “guerra fredda”, ma anche quelli del boom economico, della fiducia nelle conquiste della scienza, del benessere propagandato per tutti, sulla spinta del forte desiderio di lasciarsi alle spalle le macerie e i tristi ricordi legati alla seconda guerra mondiale.

Una storia alternativa

Lo scenario in cui si muove il protagonista Arthur è però un retrofuturo distopico, in cui la Gran Bretagna ha perso la guerra ed è stata invasa dall’impero germanico (non dai nazisti di Adolf Hitler che, insediatosi al potere nel 1933, si immagina venga spodestato all’indomani dell’attacco sferrato alla Russia), ritiratosi successivamente. Proprio nel periodo dell’occupazione, gli abitanti della fittizia cittadina di Wellington Wells (e forse non solo loro) si sarebbero macchiati di una colpa terribile, per dimenticare la quale è stata però escogitata la soluzione perfetta: “joy”, un allucinogeno da ingerire come una capsula medicinale. La conseguenza immediata è un’alterata percezione della realtà, mentre la mente vola spensierata e leggera, docile e non più in grado né di ragionare criticamente sui dettami di mass media molto manipolati, né di porsi interrogativi dal punto di vista etico o morale.

In questo contesto, dove la felicità è un’ossessione cui non ci si può sottrarre e l’imperativo è indossare (letteralmente) la maschera del sorriso, pena l’essere relegati ai margini in preda a sensi di colpa e a sfoghi violenti come accade ai reietti Wastrels, immuni agli effetti della droga, Arthur svolge la mansione di censore, per eliminare dalla stampa del passato qualsiasi riferimento a problemi e proteste che possano incrinare il finto quadro idilliaco. Gli basta comunque non ingerire una volta l’obbligatoria pillola dorata per vedere il suo mondo andare in frantumi. Scoperta la trasgressione da lui attuata, Arthur, catapultato suo malgrado tra i perseguitati Downers, è costretto a darsi alla macchia, a trovare il modo per sopravvivere e a cercare la via per fuggire dalla prigione di un villaggio lindo nell’aspetto, ma terribilmente oppressivo, dove a poco a poco riaffiorano alla memoria frammenti di un’identità artificialmente cancellata.

Grottesco con stile

Dagli abiti agli arredi, dalle acconciature ai colori accesi dell’ambientazione fin qui svelata, We happy few immerge a piene mani nel clima del British mod, quel movimento partito appunto dall’Inghilterra degli anni Sessanta associato a un abbigliamento dall’eleganza sartoriale, alla passione per il design, all’ascolto della musica jazz, nonché al ricorso alle anfetamine nelle lunghe notti trascorse di locale in locale e diventato presto sinonimo della Swinging London, immortalata al cinema in Blow Up di Michelangelo Antonioni.

Dietro lo stile del videogame c’è la mano dell’art director Whitney Clayton, che già aveva realizzato con la software house canadese il noir Contrast, scritto da Alex Epstein, lo stesso sceneggiatore di We Happy Few, i cui rimandi coinvolgono film, serie tv, libri, fumetti, oltreché videogame. Al di là dei riferimenti a Contrast, gli autori spiegano di aver guardato a survival come Don't Starve, Dead Island e The Long Dark, al gioco di ruolo Dark Souls, al roguelike FTL: Faster Than Light, fino alla serie Xcom.

Tra i film, gli echi più diretti richiamano in primis Brazil di Terry Gilliam, poi L’alba dei morti dementi e Hot Fuzz di Edgar Wright, senza tralasciare pietre miliari della fantascienza televisiva andate in onda proprio negli anni Sessanta, da The Prisoner, thriller intessuto di cultura pop, che si svolgeva in un misterioso villaggio isolato dal resto del mondo, i cui abitanti sembravano a loro agio pur vivendo nell’assoluta spersonalizzazione, ridotti a numeri e impossibilitati a valicare i confini del territorio per andarsene altrove, allo spionistico The Avengers, nello stesso decennio che dava avvio ai viaggi nel tempo del Doctor Who, il programma prodotto dalla Bbc dal 1963. Le fonti di ispirazione letteraria vanno da 1984 di George Orwell a Brave New World di Aldous Huxley, ai fumetti del ciclo The Sandman di Neil Gaiman.

Preview in fieri

In realtà, Arthur non è l’unico personaggio giocabile di We Happy Few. Ne sono stati annunciati altri due, che saranno sbloccabili soltanto dopo aver finito il gioco con il protagonista precedente e che verranno svelati in seguito. Il videogame è infatti stato lanciato su Pc e Xbox One con la formula ad accesso anticipato. Chi lo acquista ora, ottiene una sorta di preview periodicamente aggiornata e l’opportunità di avere senza ulteriori esborsi il gioco completo una volta che sarà ultimato (nel 2017).

Si ha così la possibilità di provare in anteprima quanto fin qui è stato realizzato, nonché di interagire con gli sviluppatori, facendo loro pervenire consigli e osservazioni tramite la community di Steam e i forum di Compulsion Games. Viene precisato che la preview comprende già adesso pressoché l'intera gamma delle funzionalità, sia pure da rifinire. Si può dunque sperimentare il videogame nella sua essenza, fatta di combattimenti, fughe, momenti in cui bisogna nascondersi e altri nei quali serve conformarsi, cioè fingere un comportamento consono all’etichetta di Wellington Wells. Mancano però ancora le porzioni salienti della trama e molte aree di gioco. Per capire il segreto della (in)felicità di We Happy Few e approfondire i suoi tanti aspetti bisognerà attendere che venga scritta la parola fine.