Minority Report è una serie tv in cui regna sovrano il piacere di indugiare sul contesto tecnologico. Da qui scoperte inaspettate. Il drone che i ragazzini usano per spararsi selfie dall'alto può catturare il photobombing involontario di un fuggitivo. Individui come nodi di una rete in cui memorie, percezioni individuali (si può dire “indivisuali”?) e algoritmi predittivi concorrono a formare una infosfera organica alla sicurezza pubblica e al benessere economico. Così immaginava il mondo Philip K. Dick e (seppur con tanti difetti) la serie tv targata Fox riesce a cogliere questa particolare declinazione del “villaggio globale”.

Tutta la fantascienza audiovisiva proveniente da Philip K. Dick è sempre etichettata con cautela: “liberamente ispirato a…”. Ma anche così ci si aspetta sempre forti twist, allucinazioni tecnofobiche e cinismo contro governi e multinazionali. La serie tv Minority Report traduce quel “liberamente ispirato a…” eliminando protagonisti tormentati e irrisolti come il Rick Deckard di Blade Runner o il John Anderton del Minority Report cinematografico del 2002. Questa serie tv del 2015 dirada le ombre dark e l’espressionismo visivo in favore di un’immersione futuristica più solare. Preferisce indugiare sullo sfondo tecnologico e sociale: ogni puntata di Minority Report offre due o tre momenti di product placement immaginario che sono una goduria per l’appassionato di hi-tech.

Sin dal film di Steven Spielberg del 2002, il design fanta-tecnologico di Minority Report influenza lo sviluppo di intere famiglie di prodotti nel mondo reale. Qui si apprezza la modernità di Philip K. Dick che sin dagli anni ’50 inventa le sue allucinazioni muovendosi in bilico tra il marketing e la business intelligence delle multinazionali. Ad esempio Tesco: da anni ormai sta sperimentando il suo advertising nei punti vendita basandosi sul tracciamento degli individui con riconoscimento facciale e altre tecniche. Declinazioni concrete e funzionali all’idea di pubblicità personalizzata. Concetto prototipato in Atto di forza (Paul Verhoeven, 1990) e visualizzato compitamente per la prima volta proprio da Spielberg nel film Minority Report. Aggiungiamo il riconoscimento dell’iride, il tracciamento del bulbo oculare e le interfacce digitali basate sulla gestualità che stanno già da tempo solleticando i reparti di ricerca e sviluppo dei big player dell’economia digitale.

Tra l’altro, grazie alle consolle da gioco, l'interfaccia gestuale ha segnato una piccola grande rivoluzione nella cultura digitale perché grazie alla sua (per ora unica) applicazione nella vita quotidiana delle persone ha introdotto la novità del connubio tra lo stare con il computer e una qualche attività fisica. Anche il concetto di device indossabile o di computer azionabile tramite una lente a contatto aggiunge un ulteriore elemento che sposta l’informatica in strada, tenendo le nuove generazioni di nerd lontano dal chiuso di camerette piene di balocchi. In questo senso non si aggiunge molto a quel concept ideato da John Underkoffler per le interfacce gestuali manovrate da Tom Cruise (che da più di un decennio continua a influenzare le industrie di hardware e software) ma vengono mostrate nuove possibili applicazione nel quotidiano, le strade percorse e quelle che potrebbero essere percorribili. Molte di queste idee rimarranno sospese tra fantascienza, vaporware e retro-futurismo, ma ciò che conta è che la fantascienza continui a sognare dispositivi. Ed è proprio questa voglia di sognare che gli autori della serie hanno provato a catturare.

Certo nella serie tv questa insistenza sul gadget non è bilanciata da un cast carismatico o da sceneggiature particolarmente innovative, ma che ironia intravedere ancora una volta il cinico Philip K. Dick sognatore di armi e uomo dei giochi a premi lavorare per conto di multinazionali e agenzie governative deviate.

Nel dipartimento Precrimine di Minority Report gli arresti sono basati sulle capacità predittive di tre veggenti chiamati precog. Nella letteratura di Philip K. Dick il concetto di visione si lega spesso vistosamente all'idea di guardare avanti, di pre-vedere. Lo sconcertante concept base della polizia predittiva viene da un suo racconto breve, Rapporto di minoranza, che risale al 1956. Non importa quale sia l’origine della preveggenza, lo scrittore immagina (o predice per certi aspetti) un mondo in cui certi individui possono essere usati come tecnologie per catturare o elaborare immagini, informazioni, percezioni. È proprio questo il punto della serie. Tutti sfruttano, chi per un fine chi per un altro, questa straordinaria possibilità di prevedere il futuro.

Anche in questo Minority Report serie tv non possiamo fare a meno di notare come le idee di fondo siano così forti da trascendere i personaggi e le loro caratterizzazioni. Così come Spielberg aveva stravolto i protagonisti dell’intreccio originario per evidenziare il senso di perdita del problematico poliziotto John Anderton, allo stesso modo Max Borenstein, l’ideatore della serie tv, sposta il focus sui tre precognitivi e sulla loro lotta per guadagnarsi una vita normale ed essere allo stesso tempo utili alla comunità.

Ebbene nella Washington del 2065 i precog vengono messi in pensione perché l’umanità non è interessata a ciò che non è riproducibile tecnicamente. Illogico basare un colossale sistema di lotta al crimine su delle premesse così fragili: pochi sparuti mortali individui portatori di una qualche misteriosa mutazione genetica. Nel 2065 nuove tecnologie e nuove forme di organizzazione bussano alla porta promettendo soluzioni più organiche e sistematiche. Largo al progetto “Occhio di falco”: la scienza dei big data coadiuvata da telecamere ovunque e da una internet totalmente liberata dall’ormai insostenibile concetto di privacy.

Qualunque sia il sistema è ormai chiaro che ci muoviamo verso un'era post-privacy fatta di cooperazione totale e trasparenza olistica. Ma dominano i fatti o la fiction? Affermazioni o interpretazione? Le visioni dei precog sono sempre frammentarie, incomplete, nebulose. Che garanzie ci danno queste raffiche di immagini sconnesse? Il lavoro di ricostruzione della verità è spesso macchinoso. Come dimostra la rivelazione finale che spiegherà quel “metteteli dentro”. D’altro canto il rapporto tra big data e gli algoritmi predittivi del sistema “Occhio di falco” è tutto da verificare. I flash provenienti dal futuro, così come le immagini recuperate dal passato o qualsiasi altro tipo di informazione riguardante la vita mentale di un individuo non è mai un continuum chiaro e lineare. Questo vale tanto per lo scavo demoscopico finalizzato al marketing quanto per la sorveglianza di massa.

In Minority Report non mancano riferimenti alla lotta contro il terrorismo combattuta con le reti a strascico dell’informatica. Serie come Person of Interest e Minority Report si congedano ma non dimentichiamo il loro “rapporto di minoranza” sul futuro e sulle scelte morali insite nella sorveglianza di massa. In futuro potremmo avere bisogno di precog in grado di rilevare eventuali cattive intenzioni di chi detiene l’accesso a quella miniera d’oro costituita dai nostri dati.

Tirando le somme, il fascino della serie tv Minority Report non è tanto nelle struggenti vicende dei protagonisti quanto nei momenti di pura gioia tecnofila che raccontano di manufatti elettronici e tecnologie che ci stanno cambiando (o ci cambieranno) la vita. Nessuna traccia dell’audacia visionaria di uno Steven Spielberg o di un Ridley Scott. Le regie sono poco ispirate e guidate dal pilota automatico: finiscono con l’affogare tanti dialoghi (non sempre necessari) in un delirio di lens flare e carrelli circolari. Ci vorrebbero ben altri interpreti per bilanciare questa convenzionalità nel ritmo e questo accumulo di stilemi derivativi. La Fox ha puntato tutto su un cast giovanilistico, mirando alle succose fasce teen e young adult. Per i più grandicelli c’è addirittura una spruzzatina di blacksploitation procurata dalla protagonista femminile Meagan Good.

Quest'ultima però più che una sexy poliziotta badass sembra sia lì in quota botox e silicone. Molto più interessanti Stark Sands (che interpreta il precog Dash) e il comprimario Daniel London (che interpreta lo scienziato pazzo del caso Norbert “Wally” Wallace) che portano in scena una certa imbranataggine nerd, spesso motore di spassosi detour.

“Everybody runs” recitava il marketing del film nel 2002. In questo futuro in bilico tra utopie e distopie sono tutti in fuga, scappando da qualcosa. Sembra rendersene conto anche la Fox che dovrebbe proprio andare a nascondersi e invece ci prende (e si prende) in giro mettendo in palinsesto una stagione numero 75 per The Simpsons. Reboot, prequel, sequel o remake, la verità è che rovistare nel cassonetto dell'immaginario novecentesco è sempre conveniente: i costi di produzione sono bassi e si avanza con margini esigui e senza particolari aspettative. Così, per questa via, passando dalla porta sul retro dell'immaginario, rapinatori della nostalgia audiovisiva si intrufolano e portano a casa la pagnotta senza contribuire minimamente a lasciare un segno.

Insomma, signore e signori, accontentiamoci di poter vedere un po’ di Philip K. Dick: il veggente della fantascienza, l’artista postmoderno ante litteram che, con il suo scrutare sempre obliquo, ci ha regalato delle mappe. E ben venga qualsiasi progetto che ci ricordi questo lascito.