From the heart of Minnesota / Here comes the purple Yoda cantava Prince in Laydown (da 20Ten, 2010). Come per David Bowie, il rapporto di Prince con la fantascienza è di lunga durata, e i temi SF sono a volte espliciti, a volte nascosti in criptici accenni nelle lunghe improvvisazioni strumentali che progressivamente diventano una sua firma. D’altra parte, è noto che molti suoi pezzi hanno versioni estese, solo talvolta pubblicate, abbreviate nella produzione degli album ufficiali. Possibile che di queste versioni consista molto della favoleggiata Vault, la “cripta” di inediti che si candida al ruolo di equivalente musicale dell’Esegesi di Dick.

Più che un lettore, il Prince fantascientifico sembra un grande amante del cinema, che negli anni 90 ribattezza Tommy Barbarella il tastierista dei suoi New Power Generation, nel nome della sua eroina preferita, e che poi paragona la sua conversione ai Testimoni di Geova a quella di Neo in The Matrix. Ma nel mondo afroamericano il rapporto fra musica e SF viene da lontano: su Google basta cercare la parola “afrofuturismo” e (anche su Fantascienza.com) troviamo una lunga storia di artisti che parte dal jazz, passa anche per il rock di Jimi Hendrix, e arriva al rap/hiphop.

Pochi sono gli autori nelle riviste di genere, ma di avventure e utopie afroamericane si parla sin da metà 800. A inizio 900 non è poca la SF scritta da W.E.B. Du Bois, padre del movimento di emancipazione; negli anni 60, scenari fantascientifici ricorrono nei discorsi di Malcolm X; e Martin Luther King era un fan di Star Trek. I lettori c’erano da sempre, e chissà se nel dopoguerra John L. Lewis, pianista jazz di Minneapolis, intendesse un omaggio a Buck Rogers chiamando “Prince Rogers” prima il suo gruppo e poi il figlio nato nel 1958.

La SF, semplicemente, fa parte della tradizione culturale afroamericana in cui Prince è profondamente radicato. A partire dalla base funk/soul, Prince mescola poi generi musicali di ogni provenienza, senza preclusioni. Per questo, soprattutto negli anni 80, diventa una delle punte più avanzate della musica popolare. Forse solo lui, in quel momento, poteva intitolare un album Sign o’ the Times (1987). Si fa presto a dire riflusso, ma in quegli anni la sua musica sincretica era davvero rappresentativa dei tempi, portavoce di una generazione cosmopolita che amava ballare e non accettava le barriere razziali.

Spesso distopica e apocalittica, con una spruzzata di leggerezza (anche nel sorridente rifiuto dei ruoli sessuali c’era qualcosa di utopico), per Prince la SF è anche un modo per parlare di politica. Nel quarto disco Controversy (1981), c’è il gioco della copertina che riporta titoli di giornali futuri, alcuni ottimistici altri meno; e c’è la paura per le Guerre stellari di Ronald Reagan nell’invocazione di Ronnie, Talk to Russia, un po’ seria (Ronnie, parla con la Russia prima che sia troppo tardi), un po’ amaramente ironica (Go to the zoo but don’t feed guerrillas / Who wanna blow up the world).

Il futuro è l’argomento del seguente 1999 (1982), con molti arrangiamenti ispirati, disse Prince, dalla visione di Blade Runner durante la lavorazione dell’album. Nella title track, il celebre carpe diem dell’appello “party like it’s 1999” ha come sfondo uno scenario di distruzione: il cielo si è fatto viola, e tutti hanno in mano una bomba. La guerra è diventata vita quotidiana: il colore iconico di Prince, una delle tante immagini bibliche nei suoi testi, rimanda anche a un’apocalisse sempre incombente. 

Il capolavoro Purple Rain esce nel 1984 di Neuromante, e almeno in Computer Blue il cyberpunk non è lontano. Se la versione incisa è molto criptica, una storia d’amore in cui “la macchina non funziona”, delle strofe tagliate rendono chiaro che si parlava della tragedia di un “poor lonely computer” che nessuno ha programmato per le emozioni umane. Come Gibson, anche Prince racconta la storia d’amore di un’intelligenza artificiale.

Omaggio al mondo hippie, e con un titolo che strizza l’occhio al Giro del mondo in 80 giorni di Verne, Around the World in a Day (1985) include l’amara America, che ancora una volta evoca lo spettro della guerra nucleare: nel nome del patriottismo, dice Prince, ci si dimentica della miseria del ghetto.

A legarlo definitivamente alla SF è la colonna sonora di Batman (1989).  L’iniziale pezzo The Future è quasi un manifesto del suo rapporto con gli scenari SF: Ho visto il futuro, e ci sarà / Ho visto il futuro, e funziona / Se poi ci sarà vita, lo vedremo. E il seguente Electric Chair passa direttamente al registro distopico – e chissà se aveva in mente il Rapporto di minoranza di Dick: Se un uomo è  considerato colpevole / Per quello che gli passa per la mente / Allora datemi la sedia elettrica / Per i miei crimini futuri. Si può abbracciare il futuro in maniera critica, pronti ad affrontare i nuovi conflitti, e a fare la cosa giusta: anche in questo Prince è in risonanza con Gibson.

In effetti, come ha scritto Charlie Jane Anders su io9, l’album riscrive a modo suo la trama del film. Quello di Prince è un Batman che sembra conoscere il futuro, e cerca di prevenirlo, combattendo con una gang che lo cattura e lo ferisce; troviamo un villain chiamato Partyman, un allucinogeno chiamato prima Yellow Smiley e poi Lemon Crush, un tentativo di viaggio nello spazio. Anders interpreta la Batdance finale, in cui con Batman compaiono sia il Joker sia un ulteriore personaggio (“Gemini”) che sembra incarnarli entrambi, come una sorta di rituale purificatore con cui l’eroe giunge ad annullare gli effetti della droga.

Nel periodo in cui Prince si presentava con l’impronunciabile “simbolo dell’amore” ci sono anche due incursioni fantasy, progetti multimediali solo in parte trovano la via degli album musicali; in entrambi, fa capolino Barbarella. 3 Chains o’ Gold (1992) si lancia nella tradizione africana, con una raccolta di video collegati in una storia sull’uccisione dei genitori di una bellissima principessa egiziana, e la quest per salvare le tre sacre catene d’oro del titolo dall’assalto di una banda di sette assassini (con una proiezione in un futuro distopico). Glam Slam Ulysses (1993) è un musical che mescola musica, danza e video in una  riscrittura dell’Odissea, anche qui con qualche prestito sf, soprattutto in Endorphinmachine, ispirata alla ninfa Calipso. 

Negli anni di The New Power Generation, Exodus (1995) ha una conclusione interstellare, con tanto di battaglia (The Exodus Has Begun). Pochi anni dopo, in The War (1998), non inclusa in album (uno dei primi casi di distribuzione principalmente via download), 25 minuti di improvvisazione chitarre, sintetizzatori e voci parlano di una distopia hi-tech, con microchip per il controllo mentale installati “nel collo”. Un ultimo concept album di ispirazione fantascientifica è The Rainbow Children (2001), e per una volta l’ispirazione è utopica, legata agli ideali di Martin Luther King.

Dalla varietà e intensità degli omaggi ricevuti, è facile immaginare che presto anche la SF (scritta e non solo) proverà a parlare del suo ruolo. Ma nel 1991, ci ricorda un altro intervento di Charlie Jane Anders, una celebrazione era già provenuta dal mondo del fumetto, Prince: Alter Ego, pubblicato da un marchio sussidiario della DC, scritto da Dwayne McDuffie (un altro artista morto troppo presto) e disegnato da Denys Cowan, la coppia afroamericana che in quel periodo stava producendo per la Marvel un fondamentale arco dell’antieroe cyborg Deathlok (fondamentale anche per le allusioni alla storia dei neri d’America). Il fumetto trasforma Prince in un supereroe in lotta contro un manipolatore delle masse, il Gemini di Batman, sua nemesi o forse un suo doppio negativo (la copertina è di Brian Bolland, nel 1988 disegnatore di quel The Killing Joke che forse è alla radice di tutto), sconfitto grazie alla qualità della sua performance in concerto. Ci sembra il miglior omaggio possibile al ruolo che Prince assegnava alla SF e alla musica.