A differenza dei nostri padri, noi (cresciuti tra i Settanta e gli Ottanta) siamo stati più cacciatori di androidi che di indiani, alla prateria e al cavallo abbiamo sostituito l’astronave e l’universo.

La nostra fiaba preferita iniziava con l’incipit: “A long time ago, in a galaxy far, so far” (molto tempo fa in una galassia lontana, molto lontana), questo era il mitico attacco di Star Wars, all’arco e alle frecce abbiamo sostituito la spada laser di Skywalker.

Ci siamo sentiti più figli di Flash Gordon che di Tex Willer, i nostri sogni e le nostre paure li abbiamo rintracciati tra i dinosauri volanti di Moebius e le lotte contro i vari Alien, la scienza e la fantascienza avevano un sapore più seduttivo e terrifico che non la consueta narrativa o le altre varie epoche storiche.

La nostra moneta di scambio era formata da The Long Tomorrow di Moebius e da l’Eternauta; abbiamo avuto la nostra cattiva maestra televisione e lo schermo coi pixel era il nostro teatro dei burattini, la scatola dei sogni e delle paure.

All’università avremmo gridato in faccia al primo professore di Letteratura quanto Gene Roddenberry (il creatore di Star Trek) fosse di gran lunga il più grande scrittore contemporaneo.

Lyotrad ci aveva dato lo strumento per capire il nostro tempo, il postmderno con

la sua caduta delle grande ideologie del passato; Quennon e Perec in Francia, Calvino da noi ci sembravano gli alfieri della scienza e della sperimentazione che la letteratura poteva accogliere.

Ci riconoscevamo nel postmoderno e ci lasciavamo sedurre dalla tematica dell’ipertesto e dell’intertesto, internet era esploso con la sua carica di rivoluzione della comunicazione e dei linguaggi: dalla disillusione della storia approdavamo all’immaginazione che la scienza con le sue applicazioni ci squadernava. Seguivamo le uscite della collana del pensiero contemporaneo dell’editore Chiurazzi diretta dal filosofo Gianni Vattimo, ci stava consegnando il lessico del pensiero debole e della sua ermeneutica.

Noi, giovani studenti, avevamo nel DNA un sentire diverso, una diversa capacità di relazione con il mondo e con le cose, eravamo entrati in contatto con il cyberspazio e la virtualità; nei tam tam e nei discorsi su libri e autori che non risparmiavamo, ricorreva spesso il nome di William Gibson e del suo Neuromante.

Già vincitore del premio Hugo (come Philip K. Dick) il Neuromante è un libro culto, mentre il cinema ci proponeva la trilogia di Matrix, e prima ancora la virtualità di Strange Days, rintracciavamo nel romanzo di Gibson il pretesto letterario che generava quei film. Le atmosfere del romanzo ci inquietavano, vi è poco di umano e di naturale.

L’incipit recita: ”Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto”. La tecnica diviene il metro di paragone su cui misurare le atmosfere naturali, i paesaggi.

A uno sviluppo frenetico e veloce della scienza e della tecnologia non segue però alcuno sviluppo dell’etica né della bioetica.

Diverse scuole filosofiche del passato lasciavano all’uomo due traiettorie ideali per il suo essere al mondo; verso l’alto e quindi verso la divinità, e verso il basso approdando allo stato bestiale o ferino: la libertà di intraprende una delle due vie è espressa in quel meraviglioso manifesto dell’umanesimo italiano che è La dignità dell’uomo di Pico della Mirandola.

Nel Neuromante di William Gibson sembra che l’uomo del futuro da lui immaginato, prendiamo Case il protagonista, indirizzi il suo essere nel mondo, e quindi il suo sentire, verso la ‘cosa’.

La scena di sesso tra Case e Molly introduce quello che da Benjamin e da Perniola è stato definito ‘il sex-appeal dell’inorganico’, la modalità del sentire della cosa.

È un mondo in cui l’alto livello di tecnologia e di informatica, così come la micro chirurgia, rende l’uomo più simile alla ‘cosa’ che all’essere vivente. Tutte le sue sensazioni sono filtrate o dalla droga, da uno stato di alterazione e quindi di sospensione della soggettività, o dalla neutralità dello schermo e della virtualità; il tutto riconduce sempre al sentire neutro e orizzontale della cosa.

Vi è profusa un’aura di totale anti umanesimo, la carne è una prigione che impedisce al cowboy della virtualità di perdersi e di immergersi nell’unica ‘irrealtà’ che per lui veramente conta, il cyberspazio che nel libro è definito “non-spazio della matrice […] illimitati abissi di niente”.

Case è uno dei migliori navigatori dell’interfaccia, il suo doppio irreale riesce a intrufolarsi nelle banche-dati delle corporazioni e a rubare i preziosi segreti che poi rivende a potenti ricettatori. Come tutti i pirati trattiene qualcosa per se ma una volta scoperto viene punito con una operazione che lede la sua genetica neuronale, gli viene impedito di ‘connettersi’. La sua ricerca verso la guarigione, verso un intervento ripristinante, non ha l’anelito verso la salute ma è solo il desiderio di tornare al virtuale. L’insieme della persona, con l’integrità del proprio organismo non viene preso in considerazione, anzi il sentirsi esclusi dal mondo dell’interfaccia è una menomazione, vuol dire essere solo corpi, solo carne.

La genetica e la tecnologia non hanno creato un mondo migliore né condizioni migliori per l’uomo, al contrario, tutta l’aria che si respira dal testo è di un’umanità degradata e corrotta. Uno dei personaggi, Julius Deane, ha centotrentacinque anni, il suo metabolismo viene costantemente alterato da un’immissione di siero e ormoni, i genetisti di Tokyo rinnovano il suo DNA, ma il suo aspetto è simile alla statua di cera, si approssima alla cosa. La genetica diviene il nuovo elisir di lunga vita.

Un altro personaggio, assolutamente secondario di nome Angelo, viene così descritto: ”Il suo volto era un semplice innesto cresciuto su collagene e polisaccaridi di squalo, liscio e orrido. Era uno dei lavori di chirurgia selettiva più sgradevoli che Case avesse mai visto”.

La descrizione di questa umanità geneticamente progettata rimane la cosa di maggior pregio del libro che nasce come un romanzo di fantascienza, con le sue belle scene di azione in cui Case nella matrice lancia softwer e virus per dischiudere i programmi di grandi e potenti colossi economici, ma approda poi alla meditazione e alla riflessione sulla genetica e la tecnica. Così il genere letterario della fantascienza diviene il medium di interrogativi filosofici: almeno è questo il senso di una rilettura fatta oggi, quello che prima intratteneva ora produce inquietudine, la sua attualità è ancora più reale che non nell’84 quando uscì.

Una delle tante copertine di Neuromante
Una delle tante copertine di Neuromante

Il mondo che ci consegna il Neuromante è dominato da un commercio senza confini, letteralmente visto che approda dalla realtà alla virtualità, tutto è merce anche il corpo umano e la natura stessa.

Tutto è manipolabile e alterabile perché è la natura stessa dell’uomo e del mondo a essersi evoluta in un essere-negativo, degradato e geneticamente modificato; su tutto predomina il colore asettico del silicio e del mercurio.

In ogni grande scrittore, così come in ogni vero romanzo, affiora costantemente un’affermazione, una richiesta di comprensione, come se nella narrazione venisse rivelata una verità inconsapevole, quel segreto che in ogni opera tenta di manifestarsi contro il volere dello stesso autore.

William Gibson nel suo Neuromante sembra chiedere all’uomo di interrogarsi e di regolare una forma di etica e di bioetica volta a comprendere le possibilità che lo sviluppo genetico-tecnologico impone.

Come deve comportarsi l’uomo difronte alla possibilità di auto-progettarsi? Come deve relazionarsi con il mondo della virtualità che finisce di diventare più vero della realtà? Come sente e che percezione ha della realtà l’uomo-cosa progettato nei laboratori futuristici di una Tokyo irreale? Quale etica deve imporsi l’uomo che diviene un ‘funesto demiurgo’ di se stesso?

Ad altri uomini spettano le risposte in un futuro, si spera, non troppo lontano.