Strano film questo Mad Max: Fury Road: girato da George Miller, un regista settantenne con una fame e una freschezza espressiva che dovrebbero far vergognare un’intera generazione di filmmaker bamboccioni e con essa il relativo pubblico di spettatori troppo rassegnati. Pensiamo a (qui mettere nomi a scelta… e saghe a scelta… io scelgo…) Zack Snyder, Len Wiseman, Joseph Kosinski. Gente che ha messo la firma su trame balbettanti e inconcludenti, pellicole che non hanno neanche sfiorato i miti che avevano puntato. Insomma blockbuster e franchise forse economicamente sostenibili ma di dubbio impatto sull’immaginario. Mad Max: Fury Road emerge come una illuminata (e illuminante) novità: pare farsi vanto della semplicità primitiva del suo intreccio. Il film del regista australiano è un unico folle inseguimento che dura 120 minuti. Qualcosa di molto molto lontano dalle complesse sinfonie dei franchise fantascientifici, teen-horror o action che dominano l’immaginario odierno. Piogge monsoniche di personaggi e subplot. Qui invece la secca, asciutta purezza del mito cinematografico vecchia scuola. Qualcosa che ci riporta alla semplicità di miti del cinema come l’incredibile Duel di Steven Spielberg (1971).

Sembra un miracolo che in un film di fantascienza distopica come Mad Max: Fury Road non ci siano dialoghi inutili, inquadrature asservite alla computer grafica, noiosissime desaturazioni cromatiche che vorrebbero sporcare per significare non si sa bene cosa. Insomma niente fronzoli. Virtuosismi solo dove serve: i prodigiosi assoli del reparto stuntmen, il minuzioso cesello del montaggio. Le monumentali acrobazie di tanti oscuri artigiani del cinema, contribuiscono a lavorare una sinfonia semplice ma dai ritmi mozzafiato.

Notiamo poi la classe di un grande maestro della fotografia: John Seale, altro splendido settantenne (Rain Man, L'attimo fuggente, Mosquito Coast… per dire). Il fotografo australiano non fa altro che inseguire la Natura attraverso la semplicità del contrasto tra le tonalità di una terra umiliata da un’apocalisse ecologica opposte agli incredibili cieli, a volte così belli da far credere davvero ad un possibile riscatto. Esaltando i dualismi della Natura, ci ritroviamo gli occhi e la mente impregnati di arancioni e azzurri che rivitalizzano la dimensione epica dei western alla John Ford, una delle radici della grande fantascienza avventurosa che passa per Spielberg e Lucas.

Qui però, il classicismo dei colori fordiani preso da film come Sentieri selvaggi, I cavalieri del Nord Ovest, Il grande sentiero, viene meticciato dalla schiettezza di tipi umani alla Sam Peckinpah (altro maestro del western, nume tutelare di Mad Max e della sua saga postapocalittica e postpolitica) e dal misterioso ecologismo che ci racconta di Madre Natura, delle sue figlie e del loro commovente tentativo di rimettere in moto un mondo senza speranza.

Già in Mad Max – Oltre la sfera del tuono, George Miller aveva espresso molto bene la sua visione provocatoria e controversa della democrazia e (quindi) della società dello spettacolo. Sembra non essere cambiato molto dal 1985 ovvero dai tempi del Thunderdome: «Due uomini entrano, un uomo esce!». La “sfera del tuono”, l'arena dei gladiatori, blandisce i gusti di un pubblico assuefatto alla violenza più brutale e meccanica, alla prevaricazione, alla corruzione dei governatori-sciamani che detengono il potere. In Mad Max: Fury Road ci sono i tamburi e l’heavy metal che spingono l’azione dei guerrieri che viaggiano verso il Valhalla. Ma piano però: ogni buon jihadista conosce bene il prezzo da pagare per l’immortalità ovvero il compimento delle missioni assegnate dal dittatore di turno. Per i “figli della guerra” impugnare un volante e buttarsi in missioni kamikaze è la possibilità di dare senso alla propria vita.

Rispetto alla Bartertown del terzo Mad Max, sembra ancora più desolante la vita sociale. Presso "La Cittadella" di Fury Road l'unico momento di svago pare sia l'apertura dei giganteschi idranti che distribuiscono acqua (ovvero la speranza di sopravvivere un altro giorno) inzuppando senza troppi complimenti i cenci e le carni deformi di un popolo piegato dalla fame e dalle malattie genetiche. Qui fantascienza sociologica e cronache del dopobomba vengono magistralmente sospinte in un’unica degradante direzione che suggerisce un istinto di fuga.

Si vive fantasticando un passato che acquista spesso i contorni di un miraggio. Un tempo in cui esisteva una cosa chiamata narrativa, intrattenimento, storytelling. «Ognuno aveva il proprio show», ricorda sognando una simpatica vecchina mentre osserva un satellite solitario e impazzito balenare nel cielo notturno. Chissà a cosa si riferisce? Canali YouTube? Periscope?

Nella Cittadella governata da Immortan Joe le uniche fantasie ammesse sono quelle pseudoreligiose attraverso le quali il ceto dei guerrieri viene trascinato verso la “bella morte” che precede l’eternità del Valhalla. Notevole l’intuizione di caratterizzare questi culti e le relative dinamiche tribali con la brutalità visiva di immagini prese da copertine di dischi heavy metal invecchiate dalle polveri del tempo e delle deflagrazioni nucleari. Al ritirarsi della Storia ecco emergere modelli e subculture dall’insospettabile valore mitopoietico.

In Fury Road come nel western cult Sentieri selvaggi di John Ford, viviamo in un paesaggio etico e biologico dominato da violenti rivolgimenti: la Natura che cerca nuovi equilibri e lo spirito tribale che (assediato dalle privazioni) cerca di instaurare nuove leggi (o nuovi totalitarismi). Il senso ultimo di questo Fury Road è proprio la ricerca di una speranza, di un motivo per ricominciare a vivere nonostante le difficoltà e le dolorose perdite. In Sentieri selvaggi John Ford ci racconta la storia del tormentato reduce di guerra Ethan Edwards che trova il riscatto nella missione per riportare a casa Debbie, rapita dai Comanche, unica superstite di una famiglia trucidata da una tribù indiana particolarmente bellicosa. In Fury Road troviamo Imperator Furiosa, rapita e strappata dalla sua famiglia quando era una bambina. Furiosa prenderà in mano il suo destino e il vero tesoro di questa inquietante società postatomica: le Mogli. La donna sente di dover scappare e di portare via con sé le giovani e bellissime proprietà di Immortan Joe (merce preziosissima in quanto miracoli biologici esenti da mutazioni genetiche). Scappare il più lontano possibile da un regime oppressivo e senza speranza.

Qui conta la crudezza di una violenta sfida Vita contro Morte. Da una parte la cultura matriarcale: le cisterne piene di “latte di madre”, la misteriosa fertilità degli uteri delle giovani Mogli, la borsa dei semi «tutta roba naturale» custoditi dalla vecchina, l’esclusiva capacità tutta femminile di indignarsi di fronte allo scempio di una terra sempre più sterile, il sogno di un «luogo verde» oltre l’orizzonte. Dall’altra la cultura patriarcale: i carichi di benzina che possono essere commerciati, la casta dei guerrieri che si dipingono il volto per somigliare a dei teschi, l’accumulo di ottani e di possedimenti, l’ottusa vacuità della ricerca di riscatto all’interno di un culto petrolifero che adesca la morte (in molti sensi diversi).