— Non sei migliore — riprese il cyborg. Era indaffarato su un ologramma costellato da comandi, eppure sembrava che intuisse i suoi pensieri, anzi, che in qualche modo li stesse anticipando. Un cacciatore che fiuta la paura della preda.— È orribile. Siamo immersi nella follia e tu indichi me — replicò Amos.

— Non sprecherò tempo a giudicarti, non mi interessa. Tu, piuttosto, ti senti minacciato da una mia osservazione, lieve come un aurora boreale, fugace come una meteora che attraversa l’atmosfera, quando la tua vita è incentrata sul rancore. Il tuo odio è un laser rosso fisso su chi non è con te.

— Non cercare di equipararmi a voi, mezzo uomo!

— Odiare il sistema ti fa sentire al di sopra di tutto. Ti credi superiore perché sicuro che il tuo pensiero, la tua visione del mondo e dell’universo sia il migliore. Perché pensi di essere nel giusto. Ma facendo così dimostri di essere come chi odi, con un’unica differenza. — Lo guardò di sottecchi per pochi istanti. — L’ipocrisia. Ne sei pieno. Sei quello che sei perché la società in cui vivi ti ha dato la possibilità di esserlo. Ora ostenti la tua rabbia verso la struttura, sputi bile sul governo e deridi i tuoi simili che non riescono a capire le nefandezze del potere. Mentre tu, trafitto dall’abbacinante lama della giustizia, indichi i peccati altrui. Li accusi di accidia. E non ti rendi conto che anche tu ne fai parte, non capisci che sei così poiché il sistema l’ha voluto. Tutto è programmato. No, non ti è mai venuto il dubbio. Il tuo volto ne è vergine. Guardati — lo ammonì, — sei come tutti gli esseri umani: nudo.

La pelle si riempì di piccole bolle, refoli freddi gli sferzavano il corpo. Amos si ritrovò rannicchiato, le braccia conserte e le mani che sfregavano le braccia alla conquista di un po’ di calore.

— Dietro di te — disse PQ-9.

Trovò un indumento ripiegato con precisione. Era una tunica blu oltremare. La indossò con gesti veloci e, nonostante fosse sottile, un piacevole tepore  lo avvolse.

La parete opposta vibrò. I cerchi concentrici scivolarono sulla superficie opaca, rendendola trasparente. Osservò l’ultimo lembo bianco scomparire nello spigolo. La sala si affacciava su un doppio volume di triliti e archi rampanti. Una fitta trama di passaggi senza chiusure.

L’architettura lo fece riflettere. Il Cubo era una metropoli che respirava, le strutture portanti erano solo in apparenza solide e impenetrabili. Si sentiva la presenza di un pensiero dominante, eppure mancavano le creature che avrebbero dovuto viverla, quelle per cui era stato costruito. Si domandò se esistessero davvero i cloni, se fossero a lavorare per sostenere economicamente la società nuovissima.

— Dov’è l’inganno? — La domanda uscì, liberandosi dalla presa dei pensieri.

— Quello che vedi è reale.

— Ma dove sono? Niente dimostra la loro esistenza.

— Sono oltre la cortina che abbiamo di fronte. Li puoi raggiungere attraversando un’apertura qualsiasi.

— È ridicolo, con tutte quelle uscite tenterebbero di scappare — La voce graffiò l’aria.

— Le uscite esistono se ci sono i perché. Le domande svelano l’inganno, senza è come se non ci fosse.

Amos deglutì l’interrogativo. — Non ha senso...

— Perché ragioni su possibili risposte. Sono le risposte a generare le domande. Il Cubo non ha bisogno delle religioni o della politica della paura per controllare l’individuo. Niente peccati capitali, né dèi capricciosi o nemici belligeranti e distruttori. Solo educazione all’unicità delle cose. Il Cubo insegna che le porte non vanno oltrepassate e questo basta ai cloni. Non c’è bisogno di nessuna giustificazione, perché è così. Non ci sono altre possibilità e quindi neanche interrogativi.

— No, non è reale. Non riesco a immaginarmi un uomo senza il fuoco della curiosità e i lampi delle domande.

— Loro non riescono a concepire un uomo diverso. In questo siete uguali: banalmente limitati.

— Ora sei tu a credere di essere migliore — sibilò Amos in tono di sfida.

Sulle labbra di PQ-9 affiorò un ghigno, si voltò verso le celle. Solo allora Amos si accorse che si stavano muovendo, una cascata silenziosa senza fine, tutte bianche perla. Tranne una, rossa. Arrivata a un metro da terra, il sistema si fermò e ne fuoriuscì una capsula avvolta da una pellicola gelatinosa. Almeno così sembrava agli occhi di Amos. Provò ad avvicinarsi ma PQ-9 lo bloccò, sbarrandogli la strada.

— Prima la mia dose — disse in tono di sfida.

Amos vide la pellicola vibrare al suono delle parole del cyborg. Armeggiò nelle tasche e porse a PQ-9 una bustina trasparente. Conteneva sottovuoto un'ostia grande quanto un'unghia.

— Ecco la Sintesi dell'Anima. — La sostanza gelatinosa vibrò ancora.

PQ-9 gli strappò la bustina dalle mani, mostrando un'emozione insolita. Umana. Ammirò il contenuto, quasi estasiato. Amos, invece, era rapito dal fluido.