Rosario tentò di spingerlo via con una spallata. Riuscì ad allontanare la mascella dal naso di Marcus, prima di perdere l’equilibrio e rotolare oltre i due ragazzi.Marcus scivolò via dalla presa di Albert e si mosse sulla schiena, strisciando col sedere nella polvere. Tentò di difendersi da nuovi attacchi colpendo il volto di Albert col tacco degli scarponi. Rosario percepì lo schiocco del naso di Albert che si rompeva, ma non lo vide rallentare, anche se aveva perso almeno un paio di denti contro la suola di Marcus.Infilò la mano nel sacchetto dei bulloni. Iniziò a tempestare la schiena di Albert, prima di capire che era meglio rallentare e prendere meglio la mira. Quando riuscì a colpirlo alla testa, vide quello che restava dell’amico bloccarsi e voltarsi dietro di lui.Come un lupo, Albert gli cavalcò contro a quattro zampe schiumando di rabbia. Rosario si accorse che le mani non stringevano più bulloni. Tentò di raggiungere il sacchetto, le dita si incastrarono nella stoffa. Albert gli balzò addosso e affondò le zanne nella spalla.Rosario si sentì avvolgere dal dolore. Il mondo parve sparire dietro le pareti di un bozzolo che lasciò fuori anche i suoni.

Non riuscì a comprendere quanto tempo l’incoscienza lo mantenne con sé. Dapprima furono i tonfi a farsi largo nella sua sfera di percezione, poi giunsero le grida rabbiose di Marcus e quelli che sembravano guaiti. Quando anche la vista tornò a illuminargli gli occhi, Rosario vide Albert steso a terra, inerme sotto i colpi della chiave inglese tenuta da Marcus, che infieriva su di lui come un indemoniato. Doveva averlo sorpreso alle spalle, mentre era intento a mordere lui.

Tornò anche il dolore pulsante dalla spalla martoriata, ma Rosario lo ignorò. — Fermo!

Marcus restò con la chiave inglese sollevata sulla testa. — Non deve rialzarsi più questo figlio di puttana!

Rosario si sforzò di rialzarsi. — È svenuto, non lo vedi?

La bolla violacea continuava a pulsare sotto la pelle. Non era esplosa, quindi Albert doveva essere ancora vivo, anche se privo di sensi.

— Che ne facciamo di lui? — chiese Marcus.

Albert era messo molto male. La testa spurgava sangue da più parti e ormai nulla ricordava le fattezze del ragazzino in quell’ammasso viscido e vermiglio che era diventato il suo viso.

— Ho paura che non gli resti molto — sussurrò Rosario. E solo allora la consapevolezza di aver perso l’amico aprì gli argini che avevano trattenuto le lacrime.

— Allora è meglio andarcene da qui, prima che quella roba scoppi.

— No. Abbiamo commesso un errore a liberarlo e ne faremmo un altro lasciandolo morire qui. Gli insetti potrebbero invadere la nave.

— E allora che proponi?

— Il varco. Era da queste parti, no?

Marcus si guardò intorno, come se non ricordasse più dove si trovava. — Sì, è su questa parete, poco più giù — rispose indicando a destra con la chiave inglese.

— Dobbiamo gettarlo fuori finché respira.

— Quando lo sapranno, altro che galera — protestò Marcus, mentre trascinavano Albert reggendolo per le caviglie.

Una scia vermiglia ricordava loro il percorso che avevano seguito, fino alla lastra scura che bloccava lo squarcio nella parete della nave.

Marcus abbandonò la gamba di Albert e si adoperò per spostare la copertura. Rosario rimase a fissare il piede scalzo che teneva tra le mani. Albert aveva perso una scarpa e lui non poteva distogliere l’attenzione da quel particolare privo di senso.

— Devi darmi una mano! — lo ammonì Marcus.

Rosario tornò in sé. Abbandonò il piede di Albert e spinse la lastra con Marcus, finché il vento carico degli odori della sera non si fece largo nel magazzino.

— Allora lo facciamo? — gli chiese Marcus.

— Era un nostro amico… io… non so se ci riesco.

— Sei tu l’esperto. Se hai altre soluzioni, dimmele!

Rosario scosse la testa. Secondo quanto gli aveva raccontato la dottoressa Biur, gettarlo fuori, e in fretta, era la sola cosa da fare.

Si voltò per tornare a prendere Albert. Lo trovò di nuovo in piedi, sbilenco e grondante di umori. Gli occhi vivi e feroci, oltre il gonfiore delle palpebre.

— Oh, cazzo — mormorò Marcus.

Diario di Cristina Biur, giorno 4.760 dalla caduta su Brandia.

Sono passati dieci giorni dalla morte di Albert. Non so neppure ora se ho la forza di parlarne. Devo sfogarmi, tirare fuori il tormento che ho dentro. Ma non ci riesco con un registratore, mi dispiace. Non riesco a confidarmi con una macchina, posso solo raccontarle i fatti, come se dovessi scrivere una relazione.

Non riesco ancora a rendermi conto che mio figlio non c’è più. E al dolore della perdita si aggiungono i sensi di colpa per il destino di tre ragazzini la cui unica colpa è stata quella di credere nell’amicizia.

Quando siamo arrivati alla cabina in cui Albert era rinchiuso e l’abbiamo trovata aperta, ho capito subito che era stato Rosario a liberare mio figlio. Gli altri sospettavano di me, era ovvio, e ho dovuto perdere molto tempo a convincerli che non c’entravo. Avevo violato la sicurezza portando Rosario da Albert, ma non ero stata io ad aprire quella porta.

Il magazzino è stato il primo luogo a cui abbiamo pensato. Era il ritrovo dei ragazzi, il loro campo giochi.

Il loro cimitero.

Abbiamo trovato solo il povero Marcus, in stato di shock, vicino al varco dove era caduto Albert. Ci ha messo molto a spiegarci come mio figlio aveva ucciso prima Julio e poi li aveva attaccati più volte, finché con il suo ultimo assalto era caduto fuori dalla breccia, trascinando con sé Rosario.

E lì fuori era morto, sputando fuori gli insetti, al sicuro dal resto della nave, come proposto da Elia. Abbiamo trovato il corpo di mio figlio ai piedi della Colombo. Rosario non c’era. Non oso immaginarlo assalito dagli insetti, in fuga lontano dalla nave. A vagare assetato di sangue.

Ora la breccia è stata sigillata. Due ragazzini sono morti e uno è disperso su Brandia, probabilmente morto anche lui o trasformato in una fiera idrofoba.

La vita sulla Colombo sembra continuare come se nulla fosse successo. Perché nessuno sa cosa è davvero accaduto, tranne i membri del consiglio e un ragazzo che stenta a ritrovare la ragione perduta.

Perché è meglio fingere ignoranza, che affrontare i propri demoni.