Certo, Jason Vanderberg non era un uomo normale; almeno non più, se lo fosse stato, nessuno di loro si sarebbe trovato lì e il Progetto Zeus non sarebbe mai esistito. Conosceva la vicenda di Vanderberg, la conoscevano tutti, aveva fatto il giro del mondo su telegiornali, internet, articoli, libri perfino. Due anni prima nessuno avrebbe pensato che Jason Vanderberg avrebbe potuto riempire le prime pagine dei quotidiani, era un ingegnere aeronautico che lavorava per la NASA ed era stato mandato sulla Stazione Spaziale Internazionale n. 4 per eseguire certi lavori di riparazione ai pannelli solari che fornivano energia elettrica alla Stazione, lavori che andavano eseguiti all'esterno dello scafo. Era stata pura sfortuna che una valvola che regolava l'afflusso dell'ossigeno dai serbatoi si fosse bloccata proprio allora nel modulo sotto di lui. Il modulo era esploso all'improvviso e Jason Vanderberg era stato scagliato via nello spazio. Fu ritrovato due settimane più tardi da una Venture Star mandata a cercare superstiti sul luogo dell'incidente. Quelli dell'equipaggio erano convinti di aver tirato a bordo un cadavere, ma si accorsero che Jason Vanderberg manifestava ancora debolissimi segni vitali. Il caso incredibile era rimbalzato sui notiziari di mezzo mondo, la spiegazione più diffusa era stata che le particolari condizioni del vuoto e del freddo interplanetari dovevano aver rallentato in misura estrema il metabolismo dell'uomo, fino a produrre una sorta di ibernazione o di animazione sospesa.  Henry Stone ricordava di aver letto i notiziari con incredulità, come tutti del resto, ma non era che il caso di Jason Vanderberg occupasse un grande spazio nella sua vita. Ci si era aspettato che Jason Vanderberg non riemergesse dal coma senza aver riportato delle lesioni cerebrali, ma l'uomo aveva di nuovo smentito le previsioni pessimistiche: quello che era ritornato alla vita come una fenice rinata dalle proprie ceneri, era un uomo per certi aspetti profondamente diverso, ma non aveva minimamente perso lucidità. Dopo un lungo periodo di degenza ospedaliera, Jason Vanderberg aveva illustrato ai suoi superiori della NASA un progetto da lui concepito. Dopo aver ricevuto un rifiuto ed essersi dimesso dall'organizzazione spaziale, aveva organizzato un ciclo di conferenze per raccogliere fondi e realizzare il suo progetto in proprio. Ad una di esse, Henry Stone era presente fra il pubblico: data la sua specializzazione, ingegneria aeronautica ed astronautica, era normale che fosse interessato. Un qualche tipo di lesione cerebrale, Vanderberg doveva averlo riportato: entrò sul palco muovendosi in maniera strana, rigido, quasi a scatti. Si sedette e cominciò a parlare; aveva una voce strana, monotona, priva di inflessioni, come qualcosa di meccanico, anche la faccia, per quel che Stone poteva vedere da lontano nell'uditorio, appariva inespressiva, immobile, legnosa. A pensarci, Stone non trovava per nulla strano che Panchan Tenzin avesse pensato che Vanderberg fosse posseduto, per quanto un'idea del genere apparisse assurda ad un colto ed evoluto uomo occidentale. Tuttavia, dopo un po' Stone finì per dimenticare le stranezze dell'uomo, catturato dall'esposizione. Vanderberg aveva trovato forse il modo di risolvere il problema che angustiava l'umanità da quasi un secolo, da quando aveva cominciato a muovere i primi incerti passi nello spazio extraterrestre. - E così mi sono trovato perso nel nulla - stava raccontando Vanderberg. - Non c'era nulla che potessi fare, ma potevo pensare, ed avevo tantissimo tempo per farlo. Tutti noi sappiamo che là fuori nello spazio oggi siamo impegnati in qualcosa di assurdo. Nel sistema solare, fuori dalla Terra non ci sono pianeti abitabili dall'uomo, ed i mondi che ruotano attorno a mondi simili al nostro sole sono troppo irrimediabilmente lontani. La questione è un cul de sac senza soluzione. Oltre la nube di Oorts, il guscio di comete e satelliti che racchiude il sistema solare, le distanze si misurano in anni luce. Un anno luce è la distanza percorsa in un anno dalla luce alla non trascurabile velocità di trecentomila chilometri al secondo. La distanza è troppa e tutte le nostre possibilità sono quelle di abbreviare questa interminabile “pista delle stelle” o fallire, perché abbiamo già consumato fin quasi all'osso le risorse di questo pianeta.