I vagoni, accatastati, giacciono sui binari invasi da vegetazione infestante e lamiere contorte in architetture al tetano.

Sotto, gli scogli. Il mare ha lingua di schiuma e lecca rotaie arrugginite. Tralicci abbattuti graffiano di nero il cielo grigioCorneo, mentre nebbia densa, organica, sfilaccia l’orizzonte in cumuli lattiginosi. Gli squarci nelle carrozze traboccano di buio e cespugli rossastri. Mi avvicino, lentamente. L’avambraccio, il polso e la mano destra vibrano del calore che lo scythe-glove, artiglio superstite della tuta wetware da combattimento, emana interfacciandosi con il nervo mediano, irrorato dai vasi sanguigni di supporto. Lunghe falci di mercurio scivolano fuori fra le dita, come se colassero da vene aperte: si coagulano in rasoi mentre cerco di penetrare nella carcassa del treno. Tengo stretta la paura tra i denti perché, nonostante l’artiglio in modalità wired, la mia figura sottile in jeans e maglietta è per fragilità più grottesca che temibile. Un riflesso sbiadito di… ciò che ero. Qualunque cosa fosse. I miei ricordi sono polvere in una clessidra rotta.

- Non muoverti. Il tatuaggio circolare, inconfondibile, di un’arma da fuoco fra le scapole. Alzo le mani, ritraggo le lame. - Voltati. Obbedisco. Mi sono fatta fregare. L’uomo che mi tiene sotto tiro ha il viso scavato da una granata, e cazzo, puzza da morire. La barba infeltrita di sudiciume gli arriva al petto, indossa indumenti laceri ed è afflitto da un tremore diffuso. - Dammi quell’affare. - Non potrei, neanche volendo. L’uomo guarda me, poi lo scyther e annuisce assorto. - Una puttana bionica, eh? Prima che possa replicare, mi spinge avanti con la canna del fucile. - Volevi entrare, no? Allora entra, troia. Niente scherzi. Penso che vorrei prendermi a calci. E che potrei sezionarlo in quarti pronti per la griglia prima che se ne accorga… ma questo posto mi rende strana. Debole. Mi conduce verso i vagoni di testa, scampati al rogo del locomotore. C’è un odore forte, più nauseante man mano che ci inoltriamo fra le costole rotte del convoglio,  mentre cerco con scarso successo di non inciampare in sedili divelti, vetri rotti, detriti e lamiere arrugginite. Senza perdermi d’occhio, il tizio mi supera e scosta un pannello di plastica lurida. - Dopo di te. Lo precedo nella carrozza, abbassandomi per evitare festoni di rampicanti e ragnatele. Un bidone di metallo incrostato conserva i residui di un fuoco appena spento: basta un attimo per capire perché qui ogni superficie rabbrividisca d’insetti (il quotidiano ménage del mio ospite crea un microclima favorevole alla vita), perché il fetore sia così spesso da poterlo ingoiare (nei resti del braciere frammenti di ossa e molari e teschi umani) e, infine, quale sarà il mio ruolo, in questa necrotica pantomima (primo, secondo e dessert). Rimango sull’orlo del vomito per un istante, ed è un istante di troppo: l’uomo mi colpisce al viso con violenza

uno schizzo di sangue fischia su frammenti di brace

inciampo e cado di schiena. Mi sollevo con fatica sui gomiti mentre lo guardo avvicinarsi, le dita che litigano con la patta macchiata di urina.

Interessante. Sembra sia previsto l’aperitivo.

Il sangue mi cola sul mento e sono più intontita per la mia assenza di reazioni (in un’altra vita l’avrei già crocifisso al soffitto della sua tana infetta) che per il colpo ricevuto.